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Mani in fabula, laboratorio creativo per bambini da 6 a 12 anni

Mani in fabula,  laboratorio creativo

“La logica ti porterà da A a B,
l’immaginazione ti porterà ovunque!”
(Albert Einstein)

La Dott.ssa Maggio Santa, Psicologa Clinica dello Sviluppo e delle Relazioni, promuove il laboratorio “Mani in fabula”.

Il laboratorio “mani in fabula” mira a stimolare la creatività e l’immaginazione grazie ad attività manuali spesso sconosciute ai bambini. Saranno costruiti oggetti di gioco utilizzando ago e filo, uncinetto e lana, bottoni e materiali riciclati, con la finalità di potenziare la coordinazione oculo manuale, la motricità fine, la concentrazione e la capacità di problem solving. Seguirà la creazione di favole a cura dei bambini con la finalità di esplorare le emozioni e arricchire il lessico. I bambini porteranno a casa un prodotto finito realizzato interamente con le loro mani.

Il laboratorio è rivolto a bambini dai 6 ai 12 anni e si terrà nei giorni 27-28-29 dicembre dalle ore 9:30 alle ore 11:30. Gli incontri si terranno presso lo Studio di Psicologia della Dott. Maggio Santa in via Privata Giovanni Mongiello n. 31 a Bitonto (Ba).

Il laboratorio prevede un numero massimo di 6 iscritti ed ha un costo di € 50,00.

Per informazioni chiamare il 329.4355357 o scriviere a info@santamaggio.it

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Incontro | “Il triste addio: come spiegare la morte ai bambini”

Mese del Benessere Psicologico 2016

Il triste addio: come spiegare la morte ai bambini

Uno dei grandi tabù che la nostra cultura impone è la morte, parlarne non è semplice, per questo è utile una riflessione per spiegarcela e spiegarla.

La psicologa dott.ssa Santa Maggio per il “Mese del Benessere Psicologico 2016” promuove un incontro rivolto a genitori, nonni, zii e a chiunque voglia accostarsi alla tematica della morte in modo sereno e rispettoso dei tempi.

L’incontro si terrà sabato 29 ottobre 2016 dalle 17:00 alle 19:00 presso lo studio di psicologia della Dott.ssa Santa Maggio. Visualizza qui le informazioni di contatto per raggiungere lo studio

REGISTRAZIONE GRATUITA, POSTI LIMITATI!!!

E’ possibile registrarsi anche telefonicamente chiamando il numero 329.4355357 o inviando email a info@santamaggio.it

Il Mese del Benessere Psicologico è una campagna di sensibilizzazione e promozione della Cultura del Benessere della persona. Il Mese del Benessere Psicologico è realizzato grazie alla disponibilità di psicologi, i quali offrono consulenze e seminari gratuiti.

Visita il nuovo sito del Mese del Benessere Psicologico 2016:
www.mesedelbenesserepsicologico.it

La paura della paura

Un racconto per riflettere sulle paure nei bambini, argomento che spesso mette in difficoltà i genitori e li spinge a trovare strategie per calmarle e ridurle

Il racconto che segue, tenero e realistico, ci aiuta a riflettere sulle paure nei bambini, argomento che spesso mette in difficoltà i genitori e li spinge a trovare strategie per calmarle e ridurle.

A volte la parola “paura” crea di per sé uno stato di agitazione, ma è importante tenere a mente che si tratta di un’emozione e la cosa più importante da fare è accettarla, comprenderla, non negarla solo perché è un emozione spiacevole.

Tutti i bambini vivono la paura con conseguenti reazioni fisiche istintive. Spesso queste reazioni sono utilissime in quanto costituiscono un meccanismo di difesa, che mette in allarme l’organismo quando ci si trova di fronte a qualcosa che si percepisce pericoloso o che non si conosce… e i bambini conoscono ancora poco del mondo che li circonda, per questo si sentono indifesi!

Le paure dei bambini nascono dal loro mondo interno e le insicurezze sono spesso alimentate dalla spiccata fantasia tipica del mondo infantile e dalla convinzione che anche gli oggetti sono animati.

Il mondo dei bambini è talmente ricco e profondo che spesso per gli adulti è difficile entrarci con tranquillità e senza lasciarsi travolgere dalle emozioni negative, allora è utile tenere a mente alcuni concetti:

  • occorre accettare che le paure dei bambini sono legittime, non serve forzarli a diventare coraggiosi o minimizzare e deriderli;
  • è importante rispettare i loro tempi e ascoltare con attenzione e disponibilità i racconti delle loro paure;
  • è utile che i genitori si alleino con i bambini perché in questo modo comunicano la loro disponibilità a lottare insieme contro le loro preoccupazioni e paure facendosene carico e mettendosi nei suoi panni

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

La paura della paura

Da un po’ di tempo ero cambiato.

Avevo superato abbondantemente i miei 6 anni, diciamo che ero prossimo a compierne otto, ma mi sentivo stranamente più piccolo.

La realtà si era deformata ai miei occhi. Non era diventata più grossa, no! Più profonda, più nera, più cupa.

Di notte avevo incubi che mi bloccavano il sonno e mi inducevano a pensieri a me sconosciuti. Anche mamma si era accorta che ero diverso.

Luca, poi, con le sue faccine strane e divertenti mi distraeva e per un po’ mi faceva dimenticare.

Ma a sera, precisamente al buio, perdevo ogni certezza recuperata e il mondo mi crollava letteralmente addosso. Anche le parole! O soprattutto le parole.

Sudavo, m’infilavo sotto le coperte completamente fino quasi a non respirare.

Anche col caldo.

-Dov’è? Dov’è Gasparre?-, si divertiva a prendermi in giro mamma quando scomparivo nel letto.

-Non c’è, non c’è!-, le rispondevo con tono quasi tranquillo per nascondermi.

Eppure avevo letto da qualche parte che questi fenomeni potevano accadere prima. A tre anni o quattro. Ma a otto?

Ero curioso e leggevo tutto ciò che mi capitava sotto mano. Mamma comprava molte riviste sui bambini e mi ci ero appassionato.

Una notte sognai un’ombra nera e con occhi di fuoco che mi soffocava. Nera e sempre più grande man mano che si avvicinava.

-Mammaaaa!-, urlai con quanto fiato avessi in gola.

Accorse rapidamente spaventata.

-Mamma, c’è un drago nella stanza e vuole portarmi via. E’ altissimo, coperto di squame verdi, ha due denti grandi e affilati e dalle sue fauci esce una fiamma enorme. Ho paura… Ho paura.. Vuole mangiarmi, lo so-

Mamma mi accarezzava mentre raccontavo terrorizzato.

-Non andare via, non lasciarmi solo!-

Si infilò nel mio letto e lentamente mi riaddormentai.

Quella visione era ancora nitida davanti ai miei occhi anche il mattino dopo.

Sorseggiai il latte controvoglia. Non mi piaceva quella sensazione di paura.

-Mamma, non voglio più fare sogni brutti! Quel drago era così vero e mi sembrava di soffocare dinanzi alla sua grande fiamma.

– Gasparre, può succedere che i sogni a volte non ci piacciano. Anch’io, a volte, ne sono turbata e ho paura come te ma so che non sono veri e pian piano mi tranquillizzo. Devi respirare e ripeterti che non devi aver paura-

-Ma io non ce la faccio. mi sento talmente solo in quei momenti che perdo il controllo e tremo.

-Raccontami ancora di quel drago antipatico. Che combinava?

– In realtà, niente di particolare. Mi fissava con i suoi occhi terribili. Avevano una luce rossa, cattiva e poi era armato, mamma.

-Armato?

– Sì, roteava due bastoni anch’essi infuocati prima di scagliarli contro di me. Allora ho urlato con quanto fiato avessi in gola e sei arrivata tu.

-Per fortuna, Luca dormiva come un ghiro e non ha sentito nulla. Altrimenti avresti spaventato anche lui.

-Sei sicuro che quel drago ti avrebbe assalito?-

– No, però mi ha terrorizzato!-

-Adesso, sai che quell’antipatico non esiste, vero?

– Sì, mamma. Ma non ho ancora capito come combattere la mia paura. Basta che scende il buio e cominciano i guai per me.

-Che pensi del buio?

-E’ un grande imbroglione il buio! Somiglia a un paese sconosciuto pieno di trappole…-

-E di mostri, vero?-

-Ehm… sì, non volevo dirlo.-

-Guarda che non ti devi vergognare! E’ normale provare queste sensazioni alla tua età. Il buio non cambia la natura degli oggetti. Un tavolo resta un tavolo, uno spigolo non diventa una finestra per i mostri e i mostri non entrano in casa. Anzi, non esistono affatto!-

-Allora perché mi sento inquieto?-

– Perché la paura ti porta via le sicurezze e sei più fragile. Temi che da un momento all’altro qualcuno arrivi da qualche parte e possa farti del male.-

-Verissimo! E’ esattamente così che mi sento!-

-Bevi il latte che si è raffreddato nel frattempo. Poi, ne riparliamo. D’accordo?-

-Quant’è preziosa la mamma!-, mormorai con animo più sereno.

Luca si precipitò in cucina col suo allegro sorriso che riempiva tutta la stanza. E pensare che all’inizio per la mia assurda gelosia non lo volevo! Adesso non avrei saputo farne a meno. Mi bastava giocare un po’ con lui per dimenticare tutto. Aveva due anni e provava a ripetere ogni parola che pronunciavo per prendermi in giro.

Gli piaceva sentirmi canticchiare o leggere filastrocche, la sua passione!

-Che ne dite di giocare agli esploratori stasera?- domandò mamma facendomi l’occhiolino.

-Setacceremo la cameretta al buio, con l’aiuto di una torcia esplorando ogni angolo e, se troveremo un mostro, gli faremo la pelle a quel birbante.-

-Ne inventi sempre una, mamma!- risposi felice.

-Io, io esplorare- disse Luca muovendo il pollice contro il petto, nel caso non l’avessimo capito che voleva essere dei nostri.

La giornata trascorse tranquilla. All’imbrunire cominciai ad avvertire un peso in mezzo al petto, quasi vicino al cuore.

Impallidii e mamma si preoccupò.

-Gasparre, cos’hai?-

-Non mi sento bene.-

Luca mi osservava e sicuramente non capiva nulla ma rimase fermo a spiarmi.

-Va’ a prendere la torcia dal cassetto della cucina. Poi spegneremo le luci e diventeremo agenti speciali in cerca del cattivo.

-No! Buio! Bua io!- rispose Luca piagnucolando ricordandosi che settimane prima di sera per farmi uno scherzo aveva spento la luce ed era inciampato in un giocattolino facendosi male al ginocchio.

-Tranquillo, Luca, ci sarò io!

Accesi d’istinto la torcia. La sua luce sembrava dilatare gli oggetti: i quadri appesi nel corridoio, gli spigoli dei mobili. Ci dirigemmo subito nella cameretta. Papà sarebbe rientrato più tardi e avevamo ancora tanto tempo per giocare.

Gocce di sudore rotearono sulle guance come lacrime, anche se non lo erano. Sentivo il fiato sul collo di mamma che mi seguiva e quello irregolare e stupito di Luca a cui mamma aveva preso la manina.

-Osserva- mi disse –e descrivimi cosa vedi e cosa senti.-

-Tutto è diverso!-

-Tocca, non aver timore! Segui il profilo dei lettini, esplora l’armadio, il soffitto, il pavimento, la tenda-

-Non ci sono mostri, mamma! Non c’è neppure il drago, ma può tornare stanotte..-

-E’ solo un sogno. Tu caccialo e vedrai che scompare-

-Ti voglio con me stanotte-

– No, Gasparre! Io veglio sempre ma tu devi essere più forte della paura. Hai visto? Non c’è nulla, non c’è nessuno qui che possa farti del male. Me lo prometti che ci provi a combattere?-

– Sì, sì, voglio provarci. Ma… se grido, tu vieni?-

-Certo! Non urlerai, lo so. Sei un agente speciale davvero forte!-

Luca si era addormentato. Da solo si era infilato nel suo lettino.

-E’ coraggioso, lui!- e sorrisi.

-Anche tu!- e ci abbracciammo.

Spegnemmo la torcia e la luce restituì normalità ad ogni cosa. Sentivo che non era facile, ma tentare che mi costava?

Cenammo e papà mi diede un bacio sulla guancia. Era un rituale fra noi quel bacio. Era il suo modo di dirmi che mi voleva bene, un gran bene.

Avevo sonno e mi stavo trattenendo un po’ per ingannare il tempo.

-Va’ a dormire, ometto! Tra un po’ cascherai dal sonno!-

Mamma mi accompagnò e mi rimboccò le coperte.

-Ricorda, campione, combatti!-

Annuii senza tanta convinzione.

Quella notte sognai ancora. Non era solo il drago a venirmi incontro. Mostri di tutti i tipi volevano attaccarmi. Ma stavolta ero armato e non avevo affatto paura.

Scivolai nel sonno sereno per aver resistito.

Quando aprii gli occhi, incontrai subito quelli di mamma che mi osservava.

-Ho combattuto!-

-Lo so e hai vinto tu!-

-Sì, sono felice!_

-Anch’io!-

-Pue io-

Le carezze e le feste di Luca mi fecero sentire fortunato e fiero di me. Finalmente!

(Angela Aniello)

 

Giochin Giocherello

Una filastrocca per riflettere sull’importanza del gioco per i bambini

La filastrocca che segue permette di riflettere sull’importanza del gioco per i bambini. Spesso si pensa al gioco come ad un’attività per passare il tempo divertendosi, ma per i bambini non è solo questo: è uno spazio privilegiato dove il piccolo scopre e si misura con il mondo.

Se osserviamo i bambini mentre giocano, possiamo notare quanto impegno ci mettono, quanta organizzazione e quante energie sia fisiche che psichiche sono coinvolte; il gioco per loro è paragonabile al lavoro che gli adulti svolgono e per questo si impegnano con serietà.

Attraverso il gioco, i bambini incominciano a comprendere il funzionamento degli oggetti, a familiarizzare con regole di comportamento e regole sociali, imparano ad essere perseveranti e fiduciosi nelle proprie capacità e sviluppano la creatività e la motricità sia fine che globale. Nel gioco il bambino sviluppa le proprie potenzialità intellettive, affettive e relazionali.

Le attività ludiche, a cui i bambini si dedicano, cambiano di pari passo con il loro sviluppo intellettivo e psicologico, ma rimangono un aspetto fondamentale della vita di ogni individuo, in tutte le fasce d’età.

 A volte i bimbi che giocano sono rumorosi e possono infastidire gli adulti, ma è necessario garantire e restituire ai piccoli il tempo e lo spazio per dare libero sfogo a tutte le loro pulsioni interne assicurando la complicità e la guida degli adulti che rimangono, anche nel gioco, i punti di riferimento essenziali.

Non dimentichiamo che il gioco non è solo un’attività ludica ma è un Diritto dei bambini sancito nell’articolo 31 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, spetta a noi adulti favorirlo, guidarlo e promuoverlo.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Giochin Giocherello

Giochin giocherello
guarda il mondo
quant’è bello
se ci uniamo noi bambini
per sentirci più vicini.
Ci vorrebbero perfetti,
senza remore o difetti,
tutti in fila e ordinati,
non sia mai indisciplinati!
A noi piace rotolare,
saltellare e poi urlare,
correr veloci e in libertà,
è disordinata la felicità.
Coi colori a più non posso
tutt’intorno appare smosso,
san di canti e san di fiori
se stiam fuori i nostri cuori.
Siam concenti e c’è un perché
non abbiamo mai un se:
andiamo avanti con tante storie
siamo stufi delle scorie.
Fra budini e patatine
noi cresciamo senza fine.
I mostri? Per carità!
Senza paure ovunque si va!
Giochin giocherello
spiega al mondo
che il gioco è un gioiello:
su, lasciateci giocare,
non c’è un tempo per sognare!

(Angela Aniello)

 

Come una funambola!

Un racconto per riflettere su una problematica con cui molti adolescenti si trovano a combattere: la bulimia nervosa

Il racconto che segue, nudo e crudo, fa rabbrividire per le emozioni forti che trasmette e permette al lettore di calarsi in una problematica con cui molti adolescenti si trovano a combattere: la bulimia nervosa. Si tratta di un disturbo del comportamento alimentare che comincia quasi sempre con il desiderio di perdere peso e con la convinzione di essere grassi e poco attraenti. Ci si convince che dimagrendo si possa essere più felici e in grado di realizzare i propri desideri. Ma la cosa di cui i bulimici non sono sempre consapevoli è che abbuffarsi per poi indursi il vomito, non è altro che un modo fallimentare di gestire le emozioni sgradite. Il sentirsi meglio dopo aver compensato con il vomito l’abbuffata, il placarsi dell’ansia e della paura dura solo pochi minuti per lasciare spazio al senso di colpa e di inefficacia. Essi credono di poter controllare questi atteggiamenti, ma è solo un’illusione: ad ogni episodio di abbuffata, queste condotte si irrobustiscono e si auto-rinforzano, innescando così un circolo vizioso difficile da spezzare.

Quasi sempre la bulimia nervosa è legata a fattori familiari, psicologici e sociali e non stravolge solo i comportamenti alimentari, ma anche altre aree importanti della vita della persona. E’ frequente la rinuncia alle situazioni sociali che comportano lo stare a tavola con gli altri, oppure il diventare ansiosi e irritabili rendendo i rapporti con gli altri molto difficili e tesi e condizionare negativamente una relazione amorosa come è successo alla protagonista di questa storia.

Risolvere questo problema è possibile, ma oltre ad un percorso di psicoterapia, è di fondamentale importanza una diagnosi precoce e il supporto della famiglia.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Come una funambola!

Non mi piacevo. Mi aveva mollata a aveva fatto bene. Chi se la filava una come me?

Odiavo specchiarmi. Lo specchio mi deformava allargandomi. Li avevo rimossi tutti da casa mia, avevo pregato la mamma di farlo per aiutarmi.

Vedermi brutta mi demoralizzava. Se poi dovevo immaginarmi anche cicciona, i problemi cominciavano ad esser pesanti.

Mauro non aveva retto.

“Tu mi stressi! Tu e le tue fottute fissazioni”

Ero rimasta a guardarlo senza parlare. Sapevo che aveva ragione ma non riuscivo a cambiare.

Mauro era speciale: uno di quei ragazzoni che sanno ascoltarti e ti sanno amare. Mi piaceva perdermi nei suoi abbracci.

Era come se il mondo mi facesse un inchino allora e mi sentivo bellissima. Poi, al di fuori di quel perimetro, si scatenava l’orrore.

Da quando ci eravamo lasciati stavo ore e ore ad ascoltare musica riversa sul letto. La scuola era finita da poco e tutti parlavano delle sospirate vacanze. Tutti tranne me!

“Perché te ne stai sempre chiusa in casa?”, mi domandò la mamma stanca di vedermi razzolare come una gallinella inquieta da una stanza all’altra.

“Non mi va” e tagliavo corto alzando la musica a tutto volume per farla andar via.

A volte avrei quasi desiderato che si fermasse ad ascoltare un po’ di musica con me.

Due donne sole e forti eravamo. Un po’ matte e un po’ sante. Mai leggere. Dio un giorno l’avevamo mandato al diavolo. Quando il dolore ci aveva fatto raffreddare il sangue e sentire abbandonate.

Musica per dimenticare. Per bersi il cervello. Per non fottersi l’anima con la paura.

“Tieni ben strette le gambe e non soffrirai”, mi aveva ripetuto fino alla nausea quando non aveva altro da dirmi.

Povera mamma! Era così visibilmente preoccupata e io ci provavo quasi gusto.

Non so se era più insano il mio crogiolarmi nel dolore o il provocarlo senza motivo a chi amavo di più.

“Tu stai fuori!”, mi urlò appresso Mauro due o tre giorni dopo, quando finsi di non vederlo per non spiegare.

Era arrabbiatissimo, strinse i pugni più volte quando mi raggiunse e mi bloccò.

“Perché lo fai? Perché?”, mi domandò strabuzzando gli occhi color nocciola e inanellando i ricci che cadevano a cascata sulla fronte.

Non reagivo, non avevo la forza di ammettere a me stessa che ero strana.

Mi strattonò, mi abbracciò, mi strinse per farmi capire che c’era ancora. Ma io non risposi e lo lasciai andar via per sempre.

Avevo solo quattordici anni, ma dentro ero sospesa.

Come una funambola!

Le invidiavo le funambole. Erano in grado di camminare nel vuoto, a mezz’aria, con lo sguardo proiettato in avanti, sfiorando le nuvole come a volare. Quando aprivano le braccia, spegnevano i pensieri per restare in equilibrio.

Io non sapevo più credere in Dio, avevo un cuore in totale decadenza ed ero succube della spirale perfetta d’imperfetti pensieri.

Mi ci ero chiusa da sola come in una torretta d’avorio. Inquieta contemplatrice dello svolgimento del mio malessere.

Mamma aveva stretto da tempo le gambe. Dopo l’ultima violenza subita da quell’essere immondo di mio padre, alterato dall’alcool e dalla sua nevrastenia.

Ero cresciuta in compagnia delle loro frequenti liti. Ad un certo punto erano subentrate le botte e lì avevo cominciato a chiudermi in camera per terrore con la mia musica ad altissimo volume.

Perdevo il sonno e trascorrevo le notti con le mani sulle orecchie per non sentire: anche il silenzio faceva troppo rumore! Ogni suono dall’esterno giungeva ovattato e brumose canzoni si affacciavano alla soglia della coscienza errabonda.

Detestavo mio padre! Non sopportavo il puzzo di vino che si portava addosso. Masticava amarezze e spargeva attorno veleno come un cobra pronto ad attaccare nel crepuscolo della sua follia.

E sputava sangue ogni volta che costringeva mia madre ad “aprire le gambe” con una violenza selvaggia e inenarrabile.

Si beveva le sue lacrime e le sue ultime energie.

Povera donna! Aveva smesso di combattere. Cedeva e vomitava. Cedeva e poi le stringeva sempre più forte.

Mauro sapeva e mi amava. Ci aveva provato con me, ma io gli dissi che le ragazze alla mia età non devono aprirle le gambe. Me l’aveva consigliato mamma.

Lui capì e non me lo chiese più e io lo apprezzavo. Ma non ne ero innamorata. Gli uomini mi facevano schifo e l’unico con cui mi confidavo era lui, che era diverso da tutti gli altri.

Una sera mio padre rincasò furioso cercando mamma. Qualcuno gli aveva raccontato che voleva lasciarlo e minacciò di ucciderla.

Afferrò un coltello. Mamma stava preparando la cena.

Non ci vidi più.

Aprii la porta e lo invitai ad andarsene o avrei chiamato la polizia.

Farfugliò qualcosa di incomprensibile, imprecando.

“Capisci che mi vergogno di te? Vattene prima che tu possa pentirtene. Sei di troppo qui. Nessuno ti vuole!”

Lasciò cadere il coltello, piegò il capo in una smorfia e uscì.

Fu l’ultima volta che lo vidi. Lo trovarono morto in un vicolo la sera stessa. Suicida.

Da allora mia madre le tenne sempre più strette le gambe e cominciò ad assillarmi.

Smisi di mangiare in maniera normale.

Forse non lo avevo mai fatto. Quando ero nervosa già tendevo a ingurgitare di tutto, per farmi male.

Adesso esageravo. E mi vedevo immensa, come una balena.

Mi facevo pena e gli specchi sembravano darmi ragione.

Sbraitavo, piangevo e mamma, preoccupata, acconsentì subito a eliminarli.

Non sapeva ancora che ogni notte puntualmente vomitavo.

All’inizio era quasi un gioco. Poi divenne una necessità, un bisogno compulsivo di liberarmi, di purificarmi.

La chiamavano bulimia nervosa.

Andai subito a leggerne la definizione: “uno dei più comuni disturbi alimentari, caratterizzato da alternanza di abbuffate fuori controllo e restrizione alimentare.”

Non so perché ma mi immaginai funambola. Ebbi una terribile sensazione di estraneità da me stessa.

Come avrei potuto camminare sospesa su una fune col mio peso? Potevo aggrapparmi alle nuvole con la fantasia. Potevo immaginare l’ebbrezza del vuoto e del volo.

Poi rividi il corpo di mio padre che si era tolto la vita con una fune.

“Che strano! Chi ci cammina su e chi vi precipita!”

Mi salì dal petto una risata sarcastica.

Non avevo versato una lacrima da quel giorno. Né mi ero sentita in colpa. Non gli avevo detto io di uccidersi. Aveva scelto da solo. Cosa buona e giusta. Amen!

Si chiudono così le preghiere, ma io ricordavo solo “amen” e nel mio caso significava: “ E così sia! Ben fatto!”

Ridevo e singhiozzavo ma senza lacrime.

Era troppo il dolore che avevo trattenuto. Troppo il veleno sparso su di me.

Neppure al cimitero riuscii a pensare alla sua follia come a un’intelligenza superiore. Chiusi gli occhi e cominciai a inventarlo. Il puzzo di vino ancora mi perseguitava. Qualcuno aveva deposto un fiasco vuoto irrorando la terra dov’era sepolto.

“Un altro folle. L’unico possibile compagno!”

Gli altri li aveva persi pian piano. Erano venuti meno gli affetti, i baci veri, gli abbracci sentiti. E il tempo era diventato tragico.

Non so come aveva resistito mia madre.

“Stai dimagrendo troppo, figlia mia”, mi sussurrò un giorno stendendosi sul letto al mio fianco.

“Volerai nel vento”…

“Con le gambe strette!”, aggiunsi io abbracciandola.

Finalmente era venuta da me.

“Tu non vedi, mamma cara! Sono una balena e le balene non possono volare!”

“Balena? Ti sei guardata ultimamente?”

“Non ci sono più gli specchi, ricordi?”

“Forse dovremmo rimetterli!”

Ci addormentammo abbracciate. Mi risvegliai con una voglia pazza di vomitare.

Cercai di non far rumore.

“Martina?”

Mi stavo asciugando la bocca, quando mi raggiunse in bagno. Pallida come un cencio. Con gli occhi rossi dallo sforzo.

“Martina, che stai combinando?”

“Nulla! Tutto a posto! Solo un po’ di nausea.”

“Ma se non hai quasi toccato cibo!”

In un lampo capì e mi guardò inorridita. Con gli stessi occhi vuoti che avevano contemplato e seppellito mio padre.

Non potevo reggerlo quel dolore.

Scoppiai a piangere. Un pianto isterico. Convulsivo.

Mi resi conto che il suicidio di mio padre pesava come una colpa oscura, non ancora ammessa.

L’animo turbinava come le emozioni. Come il veleno peggiore che avessi potuto ricevere.

“Tu non puoi morire!”

La sua voce ferma, pacata, dolce mi avvolse.

“Tu sei leggera e devi combattere contro il vento che può portarti via soffiando. Ti aiuterò. Andremo da uno specialista, ma non devi mollare. Tuo padre ci ha fatto tanto male, ma prima ci amava. A modo suo. Ora dobbiamo essere felici. Mauro chiama ogni giorno, mi chiede di te…”

“Il mio caro Mauro che non molla…”

Prima o poi lo chiamerò.

Adesso è presto. Ho bisogno di te. Ho bisogno di me!

“Sono debole, mamma e voglio dormire. Ricomincerò da ogni assurdità, dal tempo che non ho sentito, da quelle foglie morte all’unisono senza sole. Ricomincerò dai rumori della strada e da tutte le porte chiuse, suonando il campanello. Come una funambola! Coraggiosa!”

“E io ti sosterrò, per non farti cadere. Il vento è più pacifico se lo addomestichi e lo conosco bene. Mi ascolterà!”

(Angela Aniello)

 

Io quello lì non lo voglio!

Un racconto per riflettere sulle reazioni dei bambini alla nascita del fratellino

Il racconto che segue permette al lettore di proiettarsi, simpaticamente, ma con una punta di drammaticità, nei fervidi pensieri di un bambino che si trova di fronte alla più grande novità della sua vita: avere un fratellino… non essere più figlio unico… acquisire il ruolo di fratello maggiore.

E’ ben risaputo che la nascita di un bimbo è un momento molto delicato e complesso nella vita di una famiglia, la costringe a rivedere le vecchie dinamiche e a ristabilire un nuovo equilibrio. Questo processo, seppur naturale, pone i genitori di fronte a sfide sempre nuove e si può immaginare quanto questo possa essere ancora più difficile per il fratellino del nuovo arrivato che si trova, tutto ad un tratto, a fare i conti con molte paure e sentimenti ambivalenti.

Il primogenito è stato il centro indiscusso della famiglia, ma con l’arrivo del fratellino si troverà costretto a dividere con lui amore, tempo, spazio, oggetti e attenzioni. Così il “cocco di casa” deve abituarsi alla presenza di un membro in più, che solo per il fatto di essere così piccolo, cattura l’attenzione e la tenerezza di tutti gli adulti…così il primogenito, seppur ancora piccolo, viene visto come “il grande” ed è costretto a pensarsi “grande”.

Le reazioni da parte del bambino possono essere tante, imprevedibili e scaturiscono quasi sempre dalla paura di perdere l’esclusività nel rapporto con i genitori, di non essere più al centro del loro affetto e delle loro attenzioni, di non essere più amati! Spesso il vissuto è quello di una forte gelosia, come in un tradimento: il bambino vorrebbe che la mamma fosse tutta solo per lui perché teme che il suo amore possa essergli sottratto per essere dato al fratellino.

La gelosia è un sentimento naturale e spontaneo, che va compreso, accettato e non giudicato come comportamento sbagliato perché è innato e non riconoscerlo sarebbe come negarlo.

Alcuni bambini possono vivere l’arrivo del fratellino in maniera davvero negativa, come una imposizione, una violenta invasione che fanno fatica ad accettare. Le reazioni e l’intensità della gelosia hanno a che fare con il carattere del bambino, con la sua capacità di sopportare la frustrazione e anche con il tipo di rapporto che si crea con i genitori

Le manifestazioni di disagio e aggressività del primogenito possono essere riconosciute e meglio comprese anche osservando i loro disegni, ma la cosa più importante è ricordare che la tenerezza, l’ascolto e l’amore sono in grado di sanare qualsiasi ferita e di rassicurare il bimbo che i genitori continuano ad amarlo e a prendersi cura di lui.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Io quello lì non lo voglio!

Più lo guardavo, più mi sembrava un nemico.

Poi era tanto brutto!

Mamma volava convincermi che fosse bello come me.

Figuriamoci!

L’avevo atteso come un giocattolo da rompere. Non l’avevo mai voluto. Adesso lo odiavo.

“Che tesoro!” “Guarda come muove le manine!” “Sarà intelligente, si vede!”

Di me non si accorgeva più nessuno.

Non ero interessante. Non ero bello. Non ero intelligente.

Ero solo e basta.

Avevo appena compiuto sei anni e per sei anni ero stato l’unico.

Baci, abbracci, carezze riservati a me.

Lui, il nemico, mi spiava a volte ma non ci cascavo. Mi voleva conquistare con i suoi sorrisini e gli occhioni azzurri e vispi.

Quando si è nemici, non bisogna cedere. E’ un atto di debolezza e io non ero una femminuccia.

Niente lacrime, niente parole.

Sentivo crescere in me un grande dispiacere e non potevo farci nulla.

“Giocherete insieme a calcio. Vi divertirete”

Perché gli adulti non capiscono che a volte è meglio tacere?

Ero un bambino ed ero già in guerra.

Avevo la guerra esattamente in testa, in mezzo a quelle ciocche ribelli e dispettose.

Non avevo ancora deciso cos’è che mi desse fastidio.

Forse già il nome.

Uno che si chiama Luca non mi sembrava decisamente interessante.

Già avevo faticato ad accettare il mio di nome, Gasparre.

Col tempo mi ci ero abituato e mi ero abituato ai miei spazi. Grandi, immensi.

Ora tutto era più ristretto.

I cassetti dell’armadio.

La mia stanza dei giochi dove era stato depositato di tutto.

La mia cameretta. Ci avevano piantato un lettino carino, devo ammettere, ma così triste!

Io l’avevo superato il tempo degli orsacchiotti e dei merletti, delle bavette lattiginose, delle ninnenanne prolungate.

Io ero stato dimenticato.

Mamma, si era accorta del mio broncio.

Aveva cominciato a raccontarmi storie assurde.

Tutte fantasticherie che non mi riempivano.

Prediche snocciolate come grani di rosario che non potevano essere preghiere.

Dovevo ancora imparare a pregare.

Dovevo ancora imparare a sognare.

Forse ero a metà strada verso i sogni e non coincidevano esattamente con un tipo come Luca, il mio fratellino.

Un giorno, mamma, me lo mise fra le braccia.

“Tienilo un po’ e coccolalo! Dovete conoscervi!”

Le lanciai un’occhiataccia.

Avrei potuto romperlo davvero quel giocattolino indesiderato ed eliminarlo per sempre, ma mi sentivo spiato.

Mi guardava con i suoi occhioni e sorrideva.

Per la prima volta fui costretto ad osservarlo con attenzione.

In fondo, non era affatto brutto. Però non mi somigliava!

Era un estraneo.

Dimenava piedini e manine. Sembrava volesse giocare.

Ad un tratto mi venne da ridere tant’era buffo.

“Mamma, non ti bastavo?”

Bruciava quella domanda come tutte le lacrime che non avevo versato.

“Certo, tesoro! E mi basterai sempre. Così come mi basterà, Luca!”

“Che bisogno c’era di lui? Eravamo così perfetti io, te e papà!”

“L’amore non basta mai, Gasparre. E non volevo che restassi solo!”

“Io solo? Felicissimo, mamma, della mia solitudine!”

“Ma, Gasparre…”

“Ora non hai più tempo per me. C’è sempre Luca, solo Luca, per tutti. I regali per Luca. Le attenzioni per Luca. I baci per Luca.”

“Amore mio, tu sei geloso. Per me non è cambiato nulla e ti voglio sempre bene”

Provò ad abbracciarmi, le resi Luca e corsi nella mia cameretta.

Ero tanto geloso da non riuscire a nasconderlo. Soffrivo di essere escluso. Ai bambini va spiegato l’amore quando cambia e stavolta non riuscivo a capire o forse non volevo. Mi piaceva essere egoista, volevo la mamma tutta per me. Mi mancava e non sapevo come dirglielo.

Mi misi a giocare con le macchinine.

Feci volutamente rumore.

Luca doveva essersi addormentato fra le sue braccia. Il suono della sua voce mi urtava.

Come ogni tenerezza a lui riservata.

Avrei voluto chiudere gli occhi e non pensare.

Dicono che quando i bambini li chiudono, cominciano subito a sognare.

Udii un rumore di passi.

Due braccia forti mi misero nel lettino e mi lasciai cullare.

Non stavo dormendo e neppure sognando, ma era come se lo fosse.

Poi un respiro diverso riempì l’aria.

Luca era vicino.

Non c’entrava nulla con me, ma ahimè, dovevo dividere quello spazio con lui.

Prima o poi l’avrei distrutto.

Crollai e sognai draghi sputafuoco e giardini incantati, spade di principi e un cumulo di giocattoli rotti. Ma Luca non c’era, neppure nei sogni.

Mi svegliai col suono di un bacio e un paio di manine che affondavano nel mio viso.

Ce l’avevo vicino nel letto e la mamma mi sorrideva. Ci sorrideva.

Quant’era bella!

Mi riempii di saliva, della sua bocca che suggeva le guance, dei suoi occhioni a cui non sfuggivo.

Il mio fratellino era tanto pestifero e carino.

Per un attimo fui quasi felice.

Poi sgattaiolai come un ladro dal letto. Mi ero quasi commosso e io ero in guerra.

“Dove corri?”, mi domandò mamma stupita.

“Vado a combattere!”, risposi d’istinto.

Accidenti, mi ero scoperto!

“A combattere con chi?”

“Con i giocattoli che non posso rompere!”

Scosse la testa. Secondo me pensò che fossi pazzo.

Trascorsi la mattinata senza far nulla di particolare.

Volevo distrarmi. Accesi la tv ma non c’era nulla di interessante. I soliti noiosi cartoni!

“Luca, vieni !”

La voce della mamma suonò come un ordine.

Corsi.

“Aiutami a cambiare Luca!”

Arricciai il naso, aveva fatto la cacca e urlava.

Provai a canticchiare qualcosa per calmarlo. In fondo, potevo romperlo anche più tardi.

Era una gran fatica tenerlo fermo e mettergli il pannetto pulito.

Mi accorsi che cominciavo a guardarlo in maniera diversa. Non era più così estraneo, mi stavo abituando a lui.

Qualcosa era cambiato.

Avevo altro a cui pensare e non solo a me.

Questo era strano. Questo era forte.

“Perché non provi a disegnarlo?”

“Cosa?”

“Quello che provi!”

La mamma ne inventava una ogni secondo e conosceva i miei punti deboli.

Sapeva che adoravo disegnare e che non riuscivo a dire di no.

“Ci proverò, magari fra un pò!”

“Adesso!”

Presi un foglio, matita e colori e cominciai a pensare.

“Come si disegna la guerra?”

Non mi vennero in mente linee spezzate, ma linee curve come quella dei baci.

Strano che associassi Luca ai baci.

Forse a quelli mancati. A quelli che ancora non gli avevo dato.

Tracciai un cerchio e due cuori intrecciati che ridevano come i bambini.

Intorno c’erano tante stelle. Quelli erano i sogni.

Colorai con forza, precisione, passione. Usai colori vivaci.

Sentii l’amore scorrermi dentro.

Mamma spiava ed era felice.

Forse non ero più in guerra.

Dovevo solo ricominciare da quello spazio sognato da dividere ancora.

Bisogna sempre spiegargliele le cose ai grandi, ma anche ai bambini.

E da un disegno si impara molto di più!

(Angela Aniello)

 

Non si muore mai una volta sola!

Un racconto per riflettere sulla separazione dei genitori

Quando l’immagine dei propri genitori uniti e innamorati ad un tratto svanisce, si fa spazio alla tristezza, ad un dolore struggente e spesso muto paragonabile ad un lutto.  Ad ogni dolore è come “morire” e “non si muore una volta sola!”.

Questo commovente racconto pone la su attenzione non solo sui genitori traditi, ma soprattutto sui figli e sulle loro reazioni. Il mondo interiore è completamente sconvolto e possono essere molti i modi di reagire di un figlio che vede i propri genitori allontanarsi sempre di più. Sono “figli traditi” perché è esattamente così che si sentono: arrabbiati e feriti.

Il dolore provato da un figlio di fronte alla separazione dei genitori va affrontato con delicatezza e cautela, sapendo che non può essere smaltito facilmente e che in questo processo l’aiuto dei genitori e ai genitori è fondamentale. Ciò che è importante ricordare è che ci si può separare dal partner, ma non dai figli; essi vanno rassicurati e soprattutto va garantita loro la possibilità di mantenere un legame con entrambi i genitori.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Non si muore mai una volta sola!

Non si muore mai una volta sola!

I grandi sono davvero convinti che per morire ci sia ancora tempo e non si accorgono dei minuti che si fanno rubare dalla fretta di vivere.

Io avevo sedici anni ed ero già morta tante volte. Non avevo più paura di morire. Forse, prima che cominciassi a farlo, ero d’accordo con i grandi e non ci pensavo.

Poi, dopo la prima volta, mi accorsi che anche la paura cambiava volto.

Me l’avevano descritta come un qualcosa di troppo grande da affrontare. Ora ci ridevo su.

“Viola, ma tu non hai mai paura?”, mi domandò quella curiosona di Marta.

“Io? No!”

Fu talmente secca la mia risposta che si defilò subito, con le labbra inumidite di gelato e saliva.

“Marta non è ancora cresciuta”, pensai e mi fece quasi tenerezza.

Io ero già grande da un pezzo.

Da quando avevo smesso di giocare con le bambole.

Da quando avevo capito che gli adulti dicono un sacco di cazzate e s’illudono di prenderti in giro, come se il tuo cervello avesse un funzionamento pari a zero.

Da quando avevo imparato che la paura era addirittura più forte della solitudine.

Perché, fin quando ti senti solo sola, ti chiudi in te stessa e dici addio al mondo in mille modi plausibili. Ma le cose si complicano molto quando all’improvviso muori del tutto.

Il cuore si ferma. La mente. La tua vita si blocca.

Allora ti ripeti: “Cazzo, sono già morta! E adesso?”

E chi ti risponde se gli altri non lo sanno? Chi si ferma a guardare i tuoi bellissimi occhi e a cogliere un lampo di perfetta assenza?

Nessuno! Né mamma. Né papà. Né quell’antipatico di tuo fratello che se la ride con gli amici ed è convinto di essere il più figo del mondo quando “acchiappa” una ragazza e la mostra agli altri come un trofeo. “La caccia è finita!”, sembra sussurrare.

“Solo per il momento”, ribadisco senza voce.

Ne colleziona una dopo l’altra. Tanto… Chi glielo ha spiegato che l’amore è ben altro?

Certo non i miei!

Io sono morta esattamente un tardo pomeriggio d’estate. Ero uscita con le mie amiche. Ricordo perfettamente che stavamo ridendo ed ero serena.

Ad un tratto ho perso il sorriso e tutto il resto.

“Viola… Ma quello non è tuo padre?”

“Impossibile! E’ fuori per lavoro!”, ribattei stizzita.

“Guarda che è proprio lui e sta baciando un’altra donna!”

“Ma che cavolo dici?”

Mi voltai e dovetti focalizzare più volte l’immagine per convincermi che Marta aveva ragione.

Eravamo amiche d’infanzia ma in quel momento la odiai con tutta me stessa.

Cominciai a correre, prima che la prendessi a pugni per la rabbia.

Pensai a mia madre. A me e a mio fratello.

Alla nostra famiglia “unita”. U-NI-TA?

Balle! Tutte balle!

Balle e bolle di sapone.

Non sono simili alle bolle di sapone gli amori che finiscono? Puoi anche soffiarci con forza e tutto è solo rumore.

Però è dentro che tu scoppi.

Non c’è un prima o un dopo. Basta un minuto.

Corsi a lungo finché rimasi senza fiato e dovetti fermarmi. Tutto era lontano da me. Eppure l’eco delle terribili parole di Marta mi seguiva ancora come un’impertinente cantilena.

“Tuo padre…. Un’altra donna…”

Impazzivo, ma non volevo piangere.

Non lo meritava. Non ci meritava.

Fu allora che capii che non ci voleva molto per morire.

Mi disturbava quella morte e non la ritenevo per niente indispensabile. Con tutta probabilità avrebbe potuto essere solo una grande invenzione se non fosse che il vecchio sarebbe sparito per sempre.

Non avevo paura e non m’ingannava la speranza. Mi sarei liberata dall’imbarazzo di non sapermi gestire.

“Violaaaaa!”

Due urla disperate mi raggiunsero come un fischio assordante.

Ripresi a correre. Ma ero senza fiato.

Dovetti fermarmi.

Mi voltai e vidi i visi stravolti di Marta e mio padre.

Dannazione!

“Viola, non è come tu pensi…”, provò a giustificarsi.

“Balle, balle e poi ancora balle! Abbi il coraggio di non mentire almeno a te stesso, papà!”

Il mio evidente disprezzo fece impallidire anche Marta che, forse, si sentiva in colpa per avermelo detto.

“Non voglio ascoltarvi. Voglio stare sola!”

“Ma Viola…”

Mi girai di spalle e aspettai a girarmi finchè non li sentii andar via.

Fu allora che piansi tutte le lacrime che avevo trattenuto.

“Sono morta e piango!”, pensai sarcastica.

Avrei dovuto smettere di soffrire.

Forse ero morta a metà. Giusto il tempo di non sentirlo per un attimo il dolore.

M’incamminai verso casa. Era tardi. Sicuramente mi stavano cercando.

Non potevo morire senza cicatrici e ne avevo già collezionate un po’.

Le finestre erano illuminate.

Bellissima la luce della luna che si rifletteva nelle pozzanghere.

Aprii la porta cercando di non far rumore.

Li trovai seduti in salotto.

Papà giocava nervosamente con le dita, mio fratello guardava un programma sportivo e mamma mi guardò dritto negli occhi.

“Ti sembra l’ora di tornare, signorina?”

“Ho fatto un giro per distrarmi. Ero con Marta.”

Corsi subito in camera mia senza cenare, senza fermarmi troppo in quella stanza che mi toglieva il respiro.

“Notte, mamma!”

Quando mi misi a letto mi feci la stessa stupida domanda: “Perché a me?”

Questa volta, però, avevo ragione.

Mi ero oscurata perché faceva male vivere così.

Poi, mi addormentai.

Era già tardi quando mamma venne a svegliarmi.

Spalancò le finestre e la luce mi infastidì.

“Voglio dormire! Fammi dormire ancora!”

“Viola… Stai bene? Sei sempre così mattiniera!”

“Sono stanca… Voglio stare a letto!”

“Ti aspetto per colazione. Vestiti, dobbiamo andare in Chiesa.”

“Non ci vengo. Oggi, no!”

“Viola!”

“Ho detto, no!”

Urlammo entrambe, ma la spuntai.

L’idea di sorbirmi chiacchiere sull’amore nell’omelia domenicale non mi rallegrava.

Chi muore, alza i muri e smette di sorridere.

Chi muore non vuole nessun mazzo di fiori sullo stomaco. E quel puzzo insopportabile di vivere inquieti dà la nausea.

“Viola, scendi?”

La voce cavernosa di mio fratello mi stizzì più del solito.

“Lasciami in pace! E sparisci!”

“Sei fuori di testa?”

“Forse, ma non sono affari tuoi!”

La domenica trascorse oziando. Scesi solo per pranzo.

Ero un mostro. Gli occhi gonfi, due terribili occhiaie che m’invecchiavano all’improvviso.

La mamma mi diede un bacio sulla guancia.

“Tu non stai bene!”, mi disse preoccupata.

“Vero, amore?”, disse rivolta a papà.

Saltai sulla sedia.

Mi alzai per rinfrescarmi il viso in bagno.

Papà mi raggiunse.

“Diglielo o parlo io, adesso!”

Il suo volto tirato. Anche lui aveva dormito male.

Tornammo a sederci e il pranzo continuò come al solito.

“Troppo silenzio oggi” disse la mamma ridendo.

“Sono tutti stanchi, tranne noi, mamma!”, intervenne a sproposito quell’antipatico di mio fratello.

“Quando saprai…!”, pensai ridacchiando.

“La domenica è fatta per riposare e noi ci stiamo riposando. Vero, papà? Prima che…”

“Riprendiamo la frenesia degli impegni settimanali”, si affrettò a completare la frase tossendo e arrossendo alquanto.

“Che sta succedendo tra voi due?”, domandò mamma sempre molto attenta. Non le sfuggiva mai nulla. Sapeva cogliere al volo anche i prolungati silenzi.

“Niente, niente, cara!”

Ipocrita! Mi partì l’embolo e vomitai d’un colpo tutta l’amarezza che stavo masticando.

“Invece un problema c’è, mamma. Un grosso problema!”

Sapevo che poi saremmo morti tutti, ma non ero fatta per le finzioni. Mi stavano strette come nodi scorsoi.

“Un problema???”

La vidi vacillare, si sedette e ascoltò parola per parola immobile.

Non guardò papà ma me.

Non si può raccontare il dolore che vidi spuntare nei suoi grandi occhi color nocciola.

Non una lacrima. Le labbra tremavano, la voce, le mani.

Ci somigliavamo molto io e lei.

Due donne forti e fragili.

Mio fratello aveva smesso di ingurgitare bocconcini di carne.

Mio padre si era alzato per riprendere fiato.

Lo avevo avvisato.

“Viola… sei sicura?”

Ebbe la forza di domandarmi.

“Sì, mamma!”

Poi tacque per giorni.

Eravamo come fantasmi.

La puzza di quello schifo, forse, era arrivata fino al cielo. Ero abbastanza disperata da non vedere il sole.

Mi mancava l’odore delle risate.

Dopo aver confessato tutto, ero morta più profondamente.

Marta aveva continuato a cercarmi e io non avevo risposto a nessuna chiamata.

Ignoravo perché papà avesse ceduto. Mamma era bellissima e non meritava un simile disprezzo.

Quelle combinazioni chimiche che l’amore innesca sono davvero micce pericolose. E, quando s’innescano, fanno terra bruciata intorno senza scampo.

Cercavo di difendere l’idea d’amore che mi ero costruita a fatica e che stava crollando rovinosamente.

Non c’era nascondiglio che potesse proteggermi.

Matteo, mio fratello, era diventato taciturno, usciva poco, non parlava di ragazze, fumava più spesso e vegliava sulla mamma.

Avevo cominciato ad adorarlo.

“E’ cresciuto!”, mi ripetei.

Trascorse molto tempo prima che vedessi la mamma meno rigida in volto.

In questi giorni l’avevo sentita singhiozzare spesso. Avevo provato ad abbracciarla ma mi guardava in maniera strana.

“Ce l’ha con me!”, mi ero persuasa e avevo smesso di farlo.

Una mattina, una di quelle mattine semiautunnali che ti ingoiano l’anima, a colazione il silenzio fu interrotto da una stringata comunicazione:

“Ci separiamo!”

La voce impersonale di mamma e il suo sguardo lontanissimo mi colpirono come una freccia avvelenata.

Capii che nulla si poteva più ricucire. Né il tempo dei ricordi né quello dell’immaginazione e nemmeno quello della speranza.

“A fine settimana vado via di casa”, continuò papà.

Io e Matteo ci abbracciammo e morimmo insieme.

Morimmo di panico e di solitudine. Tesi le orecchie al silenzio: nessun rombo sotterraneo.

Squillò il cellulare e risposi: “Viola???”

Era Marta. “Facciamo due passi?”

“Sì!”

Uscii di casa morendo ancora.

Nulla sarebbe stato più come prima!

(Angela Aniello)

La separazione dei genitori porta inevitabilmente nei figli una serie di cambiamenti sia nella quotidianità che nel loro modo di relazionarsi in famiglia e con il mondo; di seguito dei brevi consigli per aiutare i genitori che stanno vivendo questa dolorosa e difficile fase della vita, con l’augurio che anche il dolore e le ferite possano trasformarsi e generare nuovo amore:

  • E’ preferibile che i genitori comunichino insieme l’intenzione di separarsi.
  • Rassicurare i propri figli sul fatto che la separazione è una decisione in cui essi non c’entrano e non hanno alcuna colpa.
  • E’ fondamentale aiutare i figli ad esprimere i propri pensieri e sentimenti rispetto alla separazione.
  • Essere chiari sull’irreversibilità della decisione per evitare il tentativo da parte dei figli di riconciliare i genitori.
  • E’ importante non parlare male ai figli dell’altro genitore.
  • Evitare di cercare la complicità dei figli contro l’altro genitore.
  • Fare in modo che i figli vedano regolarmente il genitore che non vive con loro e che non cambino drasticamente le proprie abitudini.
  • Aspettare un po’ di tempo prima di presentare eventuali altri partner

Dott.ssa Santa Maggio

 

Prestami le parole, mamma!

Un racconto per riflettere su come un bambino
vede il mondo che lo circonda

Quante volte vi sarete chiesti: cosa pensa un neonato che si affaccia al mondo? Come lo interpreta? Quali considerazioni fa delle interazioni sociali? Cosa pensa mentre compie dei gesti?

Si rimane incantati a guardare un piccolo esserino che sta nel mondo con l’aria a volte smarrita, altre così intelligente e consapevole di sé…

Molti studi mostrano come i neonati siano capaci di interagire subito: imitano la mimica facciale, fissano lo sguardo, cercano il contatto visivo della madre e immagazzinano tutti gli stimoli provenienti dall’ambiente; ogni esperienza lascia un segno indelebile che costituisce una traccia per organizzare le esperienze successive.

I bambini nascono con capacità innate di comunicazione e ricercano fin da subito il proprio interlocutore. Conoscono l’odore della sua pelle, il calore, il battito cardiaco e sono in grado di riconoscere la madre fra mille. Con lei instaurano un dialogo speciale, che si arricchisce con il passare dei giorni e permette di apprendere quelle competenze che potranno utilizzare più ampiamente nelle interazioni sociali.

Questo simpatico e delicato racconto ci proietta nella mente di un bambino che interpreta, commenta ed esprime i suoi pensieri sugli adulti che interagiscono con lui.

Si percepisce teneramente il suo desiderio di riuscire a comunicare con gli altri così come fa con la mamma, senza parole, ma con un’infinità di emozioni che comunicano molto di più delle parole!

Le parole possono anche essere prestate, ma non uguagliano mai le emozioni che devono trasmettere, la cui intensità e unicità ben si trattiene in un pensato silenzio.

Il bimbo e la sua mamma si rifugiano ognuno nello sguardo dell’altra e in quell’incontro si annullano tutti gli altri livelli di comunicazione o vi trovano un senso più profondo.

Lasciamoci trasportare dalla narrazione, in fondo ognuno di noi da bambino chissà che avrà pensato nell’approcciarsi al mondo!

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Prestami le parole, mamma!

Da quando sono nato, ovunque si posi il mio sguardo capisco che c’è bellezza, tranne nei nasi.

Non li sopporto! Lunghi, piccoli, aquilini, larghi, per me nascondono bugie.

Mi piace solo il mio, gli altri puzzano.

All’inizio tutto mi sembrava strano, irregolare. Pensavo che ogni cosa avesse spigoli.

Mi domandavo quanti lati e quanti spigoli ci fossero.

Tutto era forma. Solo che io non avevo parole.

Questo il problema.

Mi ero persuaso che gli spigoli fossero i gomiti delle cose per spostarsi; io avevo le gambe e gli oggetti gli spigoli, ottimi per difendersi.

Calciavo alla perfezione se qualcuno non mi andava a genio, gli spigoli, invece, erano subdoli e colpivano nel fianco arrecando un dolore indefinibile.

Allora, incrociare lo sguardo di mamma mi rasserenava. Solo in quel momento riuscivo a non pensare.

Era come arrivare in un porto sicuro e desiderare di fermarsi lì per sempre.

Poi ho capito che non funziona esattamente così.

Non ci si può fermare!

Quelli intorno a me avevano al polso uno strano cerchio (nuova forma per me che ero abituato agli spigoli) con lancette e ogni tanto ci buttavano un’occhiatina.

C’era, anzi mi correggo, c’è un tempo per ogni cosa. Anche per me. Un tempo pieno di bisogni.

Fame, sonno, voglia di coccole, noia, pannolino sporco. E stress! Tanto stress!

Nessuno pensa che un bambino piccolo possa annoiarsi e stressarsi. Invece, se sapessero!

Riparliamo dei nasi.

Quelli, che ti vengono a trovare per conoscerti e magicamente provano a infilare il naso tra le pieghe del collo, sono i più insopportabili.

Dico, vengono per conoscere me o sentire il mio profumo?

Lo stress mi porta a starnutire in continuazione.

Mi guardano ovunque tranne negli occhi. Afferrano le manine, controllano i piedini, contano quanti capelli ho in testa, ma, quando arrivano agli occhi, cercano solo di indovinarne il colore.

Blu… saranno blu!” esclamano sentenziando.

Buffoni! All’inizio sono quasi tutti blu, vorrei urlare.

Mamma, prestami le parole, per favore! Passami tutte quelle che non ti servono ma aiutami. Io non li sop-por-to!

Chissà perché non fanno quasi mai caso alle espressioni!

Avrà pure un significato il mio continuo sbadigliare.

In silenzio sto dicendo: “Non mi piacete!

Uh… Ha sonno!”, dicono convinti. “Il bambino deve dormire. Cresce nel sonno!

Là m’imbestialisco. Divento rosso paonazzo e mi metto ad urlare. Me ne invento una più del diavolo per farli andar via.

Sanno tutto loro. Invece non hanno capito un fico secco di me.

Non voglio dormire, non ho fame, non ho fatto la cacca, voglio soltanto la mia mamma! Le sue braccia. Le sue carezze. Le sue storie.

Non quelle quattro chiacchiere che mi son dovuto sorbire, pure inutili.

Avessi imparato qualcosa!

O meglio, una cosa l’ho imparata.

Che devo difendermi dalle persone. Da alcune persone.

Per fortuna non sono tutte uguali.

Mi piace questo mondo. Mi piacciono i volti. I nasi, no. Dicono le bugie.

Un giorno ho ascoltato la favola di Pinocchio e del suo naso sempre più lungo ad ogni bugia. E mi è venuto il terrore delle bugie.

Me lo controllo ogni giorno il naso. E’ la prima cosa che faccio al mattino. Controllare che sia sempre uguale.

Quando vedo persone con i nasi lunghi, penso: “Ma quante bugie avete raccontato!”. Allora non mi piacciono a pelle. E quelli con i nasi lunghi sono i primi a voler spiare il collo. Odiosi come le bugie!

Di contro, adoro quelli che vengono a trovarmi e hanno un tono di voce dolce. Quelli che non devono trovarti ad ogni costo difetti. Ti guardano e ti sorridono.

Basta che uno mi sorrida e mi emoziono.

Ancora non so bene cosa sia la felicità. Di sicuro è anche questo. Il piacere di un sorriso.

Allora non mi arrabbio, non ho bisogno di parole, ci capiamo perché sento il battito del cuore accelerato e una sensazione di benessere mi attraversa.

Quella serenità non mi induce a cercare per forza mamma (comunque la controllo) e mi rilassa.

Se, poi, mi raccontano storie, rischio di addormentarmi.

C’era una volta un principe che sapeva sognare…” e gli occhi si chiudono.

Le parole ti conducono ovunque e ti fanno viaggiare.

Gasparre! Gasparre!

Mi sentii chiamare.

All’inizio ero in guerra col mio nome.

Perché poi devo chiamarmi?” , tentavo di domandare a mamma. Mi piaceva anche il tono della sua voce ma il nome, no!

Pesante! Troppo per un bimbo piccolo come me!

Gasparre! Gasparre!

Neanche la voce del papà mi convinceva!

A volte, facevo finta di non sentire. Mica dovevo essere per forza io!

Un giorno mi hanno regalato una targhetta col significato del nome e mamma, che forse aveva intuito il mio malanimo, l’ha letto:

Gasparre significa stimabile maestro. Era uno dei Re Magi e portò l’oro a Gesù!

Però!”, pensai perplesso. “Mica male!

Non so chi siano i Magi, chi sia Gesù. Però ho capito che deve essere gente importante Una storia bella come altre che ho ascoltato. Poi, mi piace la parola MAESTRO.

Ha un suono forte, deciso. Un po’ mi rispecchia perché ho un bel caratterino.

Non dico che me ne sono fatto una ragione, ma quasi.

Comunque, quando posso continuare a dormire, anche se mi chiamano, non mi muovo. Apro un occhiolino, l’altro e se non vedo nessuno, riprendo a sognare.

La storia dei bambini che crescono nel sonno ancora non l’ho capita, ma dicono che chi dorme di più della nanna normale, si svegli più grande!

E spero di crescere! Voglio crescere e imparare a parlare.

Quando la mamma mi sveglia con le carezze, non c’è occhiolino che tenga.

Prestami le parole, mamma, per descrivere la tua bellezza! Ho i concetti, ma mi mancano gli aggettivi!

Mi piaci assai!

Prestami parole chiare, immediate, parole che ti aiutino a capire quanto ti amo. Ti a-mo! Mi ascolti?

Sì, è più di un semplice voler bene!

Posso voler bene al cerchio tondo e sorridente del sole, allo spicchio di luna che fa luce dalla finestra e che, quando è piena, somiglia a un bellissimo palloncino giallo.

Posso voler bene ai miei giochini, all’orsetto che dorme al mio fianco nel lettino, ma con te, con te è davvero diverso.

Finchè ero nella tua pancia e ti immaginavo, riuscivo ancora a trovarle le parole, biascicate, trasandate .

Ora non mi bastano.

E quando dico che mi piaci assai racchiudo un mondo, tutto il mio mondo.

Un mondo fatto di tenerezze, di ninnenanne, di favole raccontate, di passeggiate.

Un mondo in cui non mi sento quasi mai solo.

E’ triste quando un bambino si sente solo. Può capitare.

Se non mi guardi. Se sei impegnata in altro e mi sembra che ti dimentichi di me.

Ma un tuo abbraccio è il più bel pezzettino di te che mi doni e sparisce tutto.

Le ombre, le lacrime, le paure.

Prestami le parole, mamma, contro la paura.

Una volta mi sono convinto che i coccodrilli di notte venissero a cercarmi per mangiarmi le dita dei piedi e piangevo, piangevo.

Era solo un incubo. Ti ho svegliata, mi hai cullato semiaddormentata e al suono del tuo respiro mi sono calmato.

Mi piace, mamma, sentirmi rassicurato da te.

Mi piace anche papà, stare con lui pelle a pelle, ridere perché la sua barba mi fa il solletico ma tu, tu sei speciale.

Un giorno troverò le parole e te le affiderò.

Non so se saranno giuste, adeguate. Non so se mi accontenterò. Per ora so soltanto che

ti stupirò, vedrai, ti stupirò! E tu sarai felice! Ah, dimenticavo!

Chiamami Gasparre, non mi arrabbierò!

(Angela Aniello)

 

Dov’è tenerezza, c’è magia…

Una filastrocca per riflettere sul ruolo e sul valore
della ninna nanna per i bambini

La ninna nanna che segue regala al lettore un tuffo nella tenerezza.

La via della tenerezza giunge prima al cuore, ad ogni cuore, senza età!

Parole delicate, affettuose e rassicuranti che restituiscono quel calore sperimentato nella prima infanzia, quando tenere stretta la mano della mamma è vivere di più.

Cantare la ninna nanna è un rituale che ha origini antichissime e ha l’obiettivo principale di fare addormentare.

Ma una ninna nanna è molto di più di una strategia per favorire il sonno; se accompagnata dal contatto fisico, dal dondolamento, dal canto e da un tono di voce delicato e dolce, rappresenta per i bambini la prima esperienza emotiva, affettiva e sociale.

Oltre a rilassare, la ninna nanna sollecita lo sviluppo cognitivo e linguistico dei bambini e favorisce il legame di attaccamento con le principali figure di accudimento che offrono loro fiducia, sostegno e sicurezza.

Il valore della ninna nanna è rimasto invariato nei secoli proprio perché la persona che la canta, crea per il bambino i presupposti per la comunicazione. Piace molto nei primi anni di vita ed ha un fondamentale valore educativo in quanto arricchisce il vocabolario e la sensibilità musicale dei bambini.

La musica e il canto inducono a sognare e nel sogno felice si congiungono affetti ed emozioni in un totale abbandono. A se stessi. Alla vita che insegna! Alla vita che si sogna!

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Dov’è tenerezza, c’è magia…

Quand’è notte, ti dico che la tenerezza  si fa strada nel fondo  delle cose, in quel nocciolo stesso del vivere che collega l’amore alle parole. Incarna il volto di una mamma che contempla il suo bambino. Sa brillare come la più luminosa delle stelle. Fa innamorare della tua bellezza e si congiunge all’alba dopo aver vegliato su di te.
Quand’è notte,  ti dico: “Gioisci! Io ti sono vicina. Tu sei il mio centro. Lo sei sempre stato. Anche prima di arrivare per quanto t’ho desiderato.
Quand’è notte, ti dico: ”Sorridi! Perché è così che si impara ad amare, sapendo che è come uno specchio il nostro amore in cui ci possiamo arrotolare, contemplare e abbracciare. Tuffati pure nei miei occhi, son come braccia da allargare!
Quand’è notte, ti dico: “Non aver paura! Sono ali bianche i miei fianchi, pronti a farti volare. Solletichiamoci l’un l’altra imparando a camminare. Lasciamole agli altri le confuse parole, a noi bastano i profumi, i colori, i suoni, a noi basta possedere il respiro infinito delle cose e trovare il tempo, un tempo tutto per noi.
Quand’è notte, ti dico: “Ascolta! Ascolta quello che ti sto per sussurrare e, sia pure sbadigliando, fallo battere, fallo tremare sempre il cuore!”

Fai la ninna, piccolino,
sono belli gli occhi tuoi,
conterò  baci fino al mattino
per condurti dove vuoi.
Son colorati i battiti del cuore,
tenerezze a volontà,
te lo dico con amore,
mi commuove la tua età.
Fai la nanna, piccoletto,
e ti stringo forte al petto,
volando  qua fra le mie braccia,
la paura non s’affaccia.
Mi rapisce il tuo linguaggio
del silenzio il più bel messaggio,
son chiarori i tuoi respiri
e strade snodano i tuoi sospiri.
Ninna nanna, cucciolo mio,
dormi tranquillo,
ci sono io!
Il mondo è fuori, lascialo là,
non aver fretta,
il domani arriverà.
Diverranno fiori le tue radici,
ne sono certa,
la mia felicità tu benedici,
che meravigliosa scoperta!

(Angela Aniello)

 

Una finestra sul mondo

“Quando si spalancano finestre, si aprono orizzonti!”

Una nuova sezione del sito, curata dalla Dott.ssa Santa Maggio e dalla Prof.ssa Angela Aniello, cugine e preziosamente amanti del mondo infantile, relazionale e genitoriale, che nasce dal vivo desiderio di scrivere fiabe, filastrocche, poesie e racconti per bambini e genitori, con l’obiettivo di fornire spunti di riflessione su tematiche legate allo sviluppo psicologico dei bambini e alla genitorialità.

Aprire orizzonti è addentrarsi nel cuore della vita attraverso gli altri, è guardare la vita dal di dentro, contemplandola e ravvivando tutte le sue fragilità con dedizione, cura, protezione… Abbracciando ogni sua bellezza traendone ricchezze infinite da condividere.

Ecco il senso profondo di questo incontro che si fa racconto… Mondo… Mondi…

Questa nuova area del sito si arricchirà di filastrocche, fiabe, poesie e racconti con lo scopo di divertire, educare e riflettere!!!

Accedi subito alla pagina “una finestra sul mondo” per leggere la prima filastrocca “la finestra dei bambini” per riflettere sulla comunizione delle emozioni.

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