Il silenzio di Emma

Un racconto per riflettere sulla storia drammatica di un’adolescente vittima del cyberbullismo

Quella che trovate di seguito è la storia drammatica di un’adolescente. Vorremmo che si trattasse solo di fantasia o di estremizzazioni… ma purtroppo di storie simili se ne sentono anche nella vita di ogni giorno, in quella reale.

Spesso è proprio tra reale e virtuale che si gioca la vita di un’adolescente.

L’adolescenza è il periodo più importante e allo stesso tempo il più delicato per la definizione dell’identità che deve tendere all’integrazione delle varie componenti: quelle di tipo personale, sociale ed esperienziale (Erik Erikson, 1995). Ma con internet e l’interrealtà si assiste ad un fenomeno che inibisce l’integrazione e favorisce la moltiplicazione delle identità. Spesso da internet arrivano stimoli che suggestionano e offrono l’opportunità di modificare la propria identità e di svelarla a piacimento portando l’adolescente a ricercare consensi nel mondo del virtuale: questo può intrappolarlo nel rapporto con i social network e sicuramente non favorisce la maturazione di un’identità autentica. Il rischio di non riuscire a controllare le proprie emozioni e di non capirne l’origine è sicuramente sempre in agguato, come è sempre alle porte il rischio di essere vittima del cyberbullismo!

Buona lettura!

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Il silenzio di Emma

-Dimmi, sto bene?-

-Sei decisamente perfetta, Anna! A Stefano farai girare la testa stasera e il cuore..-

-Ah ah ah! Sempre la solita!-

-Sì sì, parli bene tu che stai già pregustando una serata da scintille. Potessi averne io una così!-

Anna strabuzzò gli occhi e colse un senso d’amarezza dietro quell’affermazione. Non l’aveva mai ammesso così chiaramente Emma il suo disagio.

-Emma, Emma cara, vedrai che arriva pure per te l’amore. Non dubitare!-

-Uhm, non ne sono così sicura ma, a questo riguardo volevo dirti che..”

-Che?-

-Che uno, insomma, un tipo giusto forse l’ho incontrato.-

-E dove se non esci mai, a parte la scuola e la parrocchia?-

-Su Ask. Ne avrai sentito parlare, no?-

-Sì e certo non bene. Dicono non sia affidabile. Poi quelle domande anonime cui rispondere non mi attirano affatto.-

-Allora, racconta! Ho ancora qualche minuto, poi vado. Stefano mi aspetta a un isolato da qui. Dice che mi stupirà e io gli credo. Finora non mi ha mai deluso.-

I suoi occhi sognanti fecero disperare Emma.

-Con quella mini così mini lo farai sicuramente felice. Non dovrà armeggiare molto per averti.-

-Emma, non sei mai stata così spregiudicata, mi disarmi.-

Il rossore delle guance non smentiva quanto detto, anzi lo avvalorava.

-Insomma… Il tipo è interessante, poi con lui mi sono spinta oltre…-

-Cioè l’avete fatto e io ne sono all’oscuro?-

-No, no, non intendevo fino a quel punto, ma credo manchi poco. A breve gli chiederò un appuntamento.-

-Lui cercava una abbondantemente sensuale ed erotica disponibile e io mi sono proposta. Quell’abbondantemente mi ha colpito e ha risvegliato ogni senso. Mi sono presentata confermandogli il mio interesse a saperne di più. All’inizio solo domande e risposte scherzosamente banali, ma sempre un po’ piccanti. Poi in privato mi ha chiesto tutto: descrizione fisica, particolari sulle misure, gusti su biancheria intima e infine foto. Lì ho titubato un po’, ma ormai c’ero e non potevo sottrarmi al suo fascino. Ho accontentato ogni sua richiesta e con la webcam diciamo che l’ho fatto impazzire scoprendo lentamente le mie parti intime…-

-Basta! Basta! Ti sei ammattita o che? E non t’ha sfiorato neppure per un secondo l’idea che potesse usare diversamente quelle foto e quei filmati?-

-Sinceramente no! Non è che sia proprio tranquilla, ma penso di potermi fidare, vedrai…-

-Ora devo andare, ma ne riparleremo, devi raccontarmi di più..-

-Sì, tu divertiti, io ho un programmino sexy con lui se si collega.-

-Sta’ attenta, bacio!-

Emma rimase dietro la porta finchè il ticchettio dei tacchi cessò. Era l’ennesimo sabato sera che trascorreva in casa. I suoi erano usciti a cena con amici. Davide, suo fratello, ormai dipendeva completamente dalla sua fidanzatina che gli organizzava le serate.

La casa era abbastanza grande e il vuoto intristiva.

Accese il pc sperando che la lucina del contatto divenisse verde. Nulla! Rimase davanti lo schermo per ore inebetita. Prese il completino intimo che aveva comprato e lo indossò. Lo specchio non rifletteva un’immagine perfetta. Anzi!

Era ingrassata ancora. Non riusciva a fare a meno dei dolci.

-Se continui a mangiarne, diverrai una palla di lardo.- La voce dura e impertinente di Emma la seguiva ovunque. Soprattutto nei silenzi.

-So che mi vuoi bene, ma che posso farci? Dovrò pure consolarmi in qualche modo! Niente sesso, ma dolci a volontà!-

-Sì, chi ti fila poi? Sei diventata come un armadio e il grasso straborda.-

-Non credi di esagerare? Affatto! E sono sincera.-

Prese ad accarezzarsi i fianchi abbondanti e far scivolare le mani sulle cosce piene di cellulite, anche la pancia era molliccia, ma il seno era un’esplosione.

Una decima era davvero tanto seno sodo e generoso.

Era su quello che puntava per conquistare Davide, così le aveva detto di chiamarsi.

E Davide arrossiva, si confondeva dinanzi a quella prosperosità.

Anche il suo viso non era niente male. Il nasino all’insù, ereditato dalla mamma di origini francesi, le conferiva sensualità e simpatia.

Le sue amiche glielo invidiavano.

Anna, ad esempio aveva narici molto larghe e un viso poco interessante montato però su un corpo mozzafiato.

Decise che guardarsi poteva essere molto deprimente se dall’altra parte non c’era nessuno che le facesse i complimenti.

Accese la tv, si spaparanzò sul divano e cominciò a sgranocchiare patatine e a bere con la cannuccia due o tre lattine di coca cola.

Sapeva che era una miscela esplosiva, ma a diciassette anni ad un tratto il mondo comincia a rovesciarsi e con esso tutte le buone e sane convinzioni.

-Fanculo alla linea e a voi tutte anoressiche! Io non sarò mai una taglia 40, non me ne può fregar di meno! Fanculo pure a te, mamma, che ti vergogni a portarmi appresso nei tuoi circoli di bellezza dove o si è perfette o lo si diventa nel tempo!-

Tu sì que vales su Canale 5 era solo un lieve mormorio. La mente vagava, le nocche tamburellavano sul bracciolo di legno, gli occhi si assopivano di tanto in tanto.

Chissà che stava facendo, Anna! Erano già seminudi da qualche parte dopo la cena romantica? Stavano facendo l’amore tra grida e ridolini? Stefano era caruccio e la sapeva rendere felice.

-Davide, cazzo, dove sei finito? Inghiottito da un silenzio che morde più di un cobra. Striscia sulla pelle ed è pronto ad agguantarmi fra le sue spire.

Non scappo. Sono immobilizzata. Non so se è giusto vivere così!-

Era l’una. Si stese sul letto e di tanto in tanto spiava la lucina.

Ad un tratto un verde brillante riempì i suoi occhi.

-Eccoti, amore mio!-

-……………….-

Smise di pigiare i tasti.

-Ho voglia di te, adesso! Spogliati e comincia a far ondeggiare i tuoi seni-

-Fammi vedere il tuo volto!-

-Adesso, no! Lunedì, forse, lunedì…-

Valse più di una promessa.

La webcam era posizionata sul suo corpo. Era rimasta seminuda col suo completino.

-Ti piace?-

-Cosa?-

-Il mio reggiseno nuovo!-

-Adoro i tuoi movimenti.-

-Strizza i capezzoli e lascia dondolare di fianchi in una danza sinuosa-

Stefano-Davide era al culmine di un’erezione e non trattenne il suo piacere.

-Domani, domani sera ci vediamo e ci divertiamo un po’-

-Dove? Quando?-

-Ti faccio sapere io.-

Il giochetto era durato un’oretta. Emma era felice adesso.

-A lunedì!-

Dormì tranquilla e la domenica fu abbastanza insignificante. Nessuna telefonata di Anna. Nessuna emozione particolare.

La sveglia suonò tardi e quel lunedì cominciò male. Si vestì in gran fretta senza far colazione con i crampi allo stomaco per la fame e corse via.

L’ingresso dell’I.T.C. era monumentale. Un vecchio monastero adibito poi nel tempo a edificio scolastico.

Frotte di ragazzi arrivavano da ogni dove al terzo suono della campanella. L’ultimo valido per entrare, poi chiudevano il portone.

Vide Anna praticamente incollata a Stefano. Ogni momento era buono per stare insieme.

-Emma, ciao!-

Le venne incontro con un sorriso luminosissimo.

-Tutto bene?-

-Sì, a te?

-Meravigliosamente, più tardi mi inoltro nei dettagli.-

Entrarono in classe e presero posto. Il Prof. di Matematica stava già facendo l’appello.

-Sempre in ritardo voi due!-

La sua voce severa scivolava come l’acqua.

Aprirono libri e quaderni e preferirono tacere.

-Mi ha contattata! Oggi ci vediamo!-

-Chi?-

-Davide, cioè… il tipo di cui ti avevo parlato.-

-Signorina Masi, cosa stavo spiegando?-

-Uhm, Professore, ci stavamo scambiando un’informazione importante-

Anna rise e poi si fece subito seria e pensierosa.

Quella storia non le piaceva affatto.

All’intervallo chiesero di andare in bagno. Era l’occasione per Anna di vedersi con Stefano e per lei una sana ventata d’aria fresca.

Ad un tratto l’occhio cadde su un volantino incollato sulla bacheca scritto in stampatello maiuscolo.

-RAGAZZA CON DECIMA DI REGGISENO RICEVE QUESTA SERA. PER INFORMAZIONI, CONTATTARE IL NUM……-

C’era una strana coincidenza. Il cuore si fermò per un attimo. Divenne pallida come un cencio e con una scusa rientrò in classe.

Stefano aveva seguito tutti i suoi movimenti ed era soddisfatto.

-Dì, tu, che stai tramando? Quando ridi così, ne stai combinando una delle tue! Guarda che se ti scopro son guai!-

-Io? Nulla, nulla.. Solo che stasera ho un impegno e non possiamo vederci.-

-Con chi ti vedi?-

-Con mio padre, un affare di famiglia importante, credimi!-

-Va bene, andrò da Emma!-

Emma all’uscita fu vaga e senza dir nulla si affrettò a tornare a casa.

-Mamma, arrivo!-

Accese il pc, si collegò ed ecco il messaggio che aspettava.

-Stasera alle 18:00 davanti al Bar Orchidea. Non mancare! Avrò una felpa bianca.-

-Ok!-

Emma decise di andare. Voleva sapere.

Lo squillo del cellulare la fece sobbalzare.

-Emma, stasera sto con te. Stefano ha un impegno e sono liberissima.-

-Mi spiace, non posso. Ho da fare anch’io.-

Stava chiudendo quando l’urlo indispettito della sua amica dall’altro capo la trattenne.

-Cavolo! Siete tutti impegnati!-

-Per una volta assapora la solitudine!-

-No. no e poi no! Ti raggiungo, poi vado via!-

-Va bene!-

-Cazzo! Non me ne va bene una oggi!- E lanciò il cellulare sul letto per non far troppo rumore.

A tavola giocherellò col cibo.

Aveva lo stomaco sottosopra. Niente farfalle, niente emozioni, niente di niente!

-Non l’avevo immaginato così l’amore. Devo incontrarmi con lui e non mi tremano neppure le ginocchia.-

Uscì tutti gli abiti probabili per l’occasione. Ne scelse uno color cremisi. Dava luce al viso e allo sguardo.

Abbinò un rossetto per l’occasione, un filo di eye-liner ed era pronta.

Sapeva che Anna non avrebbe tardato e non era in vena di confessioni religiose.

La torturava il senso di fame insoddisfatta. Cercò di domare i riccioli raccogliendoli un po’.

-Emma! C’è Anna qui!-

-Arrivo!-

Scese le scale senza affrettarsi.

-Wow! Che schianto!-

-Ricordi cosa ti ho confidato nell’ora di matematica?-

-…… Uffa! Non mi sovviene!-

-Io. il tipo. stasera…!-

-Ah, era quello il tuo impegno? Scusami! Dove avrò la testa?-

-Ahaha! Non cambierai mai! Stefano ti dà buca per una sera e tu immagini storie strane e misteriose.-

-Un po’ ci hai preso. E’ stato vago e non l’ho bevuta. Mi accorgo quando mente e stavolta sento puzza di bruciato.-

-Tipo?-

-Tipo che non so, ma c’è qualcosa che non mi piace a pelle.-

Mancava un quarto d’ora all’appuntamento.

-Dai, accompagnami! Poi vai via!-

-Sei bellissima, Anna! Cadrà ai tuoi piedi!-

-Non sono tranquilla neanche io. Stranezze d’amore…-

-Eh! Stomaco in subbuglio, occhi illanguiditi, labbra pronte a baciare, mani che sudano.. Chiari sintomi d’innamoramento in corso.-

Si avviarono ridendo e scherzandoci su.

Anna ed Emma si abbracciarono forte e si separarono all’angolo prima del bar.

Era in anticipo e decise di mettere le cuffie e ascoltare un po’ di musica.

Anna si appostò dietro un’auto. Era curiosa.

-Mica sto facendo l’impicciona io! Voglio proteggere la mia amica!- disse a se stessa per convincersi che non era proprio scorretto spiare.

Quando lo vide, il cuore le diede un pugno in petto.

Inconfondibile nella felpa bianca che gli aveva regalato. E non era solo.

Marco e Andrea erano con lui.

-Che cazzo sta succedendo?

Emma era di spalle. Musica a palla nelle orecchie. Non si era accorta di nulla.

Avanzavano spediti verso di lei. Sembravano brilli.

Appena furono vicini, si guardarono circospetti.

La strada era deserta. Il bar era chiuso.

Due le trattennero le braccia.

Stefano cominciò a toccarle il seno.

Emma si voltò urlando.

-Che ci fate qui?-

-Ma chi credevi che fossi? Il principe azzurro? Puah! Mi fai schifo, lardona!-

Emma cercò di liberarsi dalla stretta.

-Toglimi le mani di dosso o te la faccio pagare!-

-Uhm… La santarellina sta recitando il suo rosario quotidiano!-

Anna non ci vide più.

Quando Stefano notò la sua presenza, impallidì.

-Brutto stronzo! Da stasera sarai sempre impegnato con tuo padre. Con me hai chiuso! Vaffanculo, capito? Vaffanculo!-

Cominciò a lagnarsi, a piagnucolare.

-Ecco quello che sei! Un bambinone stupido e viziato. Non so che farmene di uno come te.-

Prese per il braccio Emma e andarono via.

Non parlarono, non commentarono. Si abbracciarono silenziose.

-A domani, Emma!-

Salì le scale in punta di piedi. Erano di ghiaccio i piedi.

Non c’era nessuno.

Quanto rumore fa la paura?

Si fece una doccia calda e si strinse nell’accappatoio. Aveva freddo al cuore.

-Mi son fatta fregare! Avevi ragione, Anna!-

Prese due fogli da lettera e scrisse due righe su ognuno.

-Fanculo a tutti! Me ne vado via in solitudine! Un bacio-

-Abbi cura di te, Anna! Mica ti lascio, eh? Passo solo dall’altra parte.-

Suo padre aveva una collezione di coltelli antichi.

Estrasse quello con la lama più grande.

Cominciò a giocherellare sui polsi. Tagli sempre più profondi e sangue che schizzava ovunque sul pavimento di marmo bianco nel salone.

Poi un colpo netto al cuore e fu subito buio.

La trovarono così.

Urla strazianti forarono la sera.

Anna, intanto, si rigirava nel letto senza prender sonno.

Il display del cellulare ad un tratto si accese.

-Giuro che se osa chiamarmi, gliene canto ancora quattro.-

Il nome di Emma campeggiava lo spazio a disposizione.

-Emma, Emma cara, dimmi!-

-Emma non c’è più, Anna!-

La voce singhiozzante del fratello le accorciò il fiato.

Si rivestì e corse lì accompagnata da sua mamma.

-Ti voleva bene, ti voleva bene!-

Quando le porsero quel foglio macchiato del suo sangue, si sentì mancare.

-Ho perso le parole nel dolore. Ho provato a raccoglierle, ma non le ho ritrovate. Si sono sparse lungo la via, lungo la via del non ritorno-

Scrisse questa frase sulla lavagna a scuola il giorno dopo.

Erano tutti sconvolti.

-Adesso parla, se ne hai il coraggio. Racconta di quel cazzone che ha giocato con l’amore e s’è bruciato da solo. Racconta di un’amica che mi hai portato via!

Raccontate che gli scherzi uccidono, uccidono ancora!-

Stefano, Marco, Andrea piangevano senza consolazione. Emma li aveva puniti nel modo peggiore. Scivolando via da tutto e da tutti senza possibilità di riscatto.

Ad un tratto pallido, barcollante, con gli occhi scavati dal pentimento Stefano davanti a tutti espose il piano escogitato ai danni di Emma.

-Mi assumo le mie responsabilità. Se devo pagare per il mio errore, che sia!

Ho lasciato i miei occhi nel suo terrore ieri. Li ho lasciati anche in quelli delusi, feriti e arrabbiati della mia ragazza. Si paga cara la stupidità. Si paga cara una vita che non c’è più.-

Anna non alzò lo sguardo mai. Tornò a casa stravolta.

Emma se l’era portata appresso.

(Angela Aniello)

 

Per gli occhi di Elisa

Un racconto per riflettere su un tema di forte attualità di cui probabilmente non si parla mai abbastanza in famiglia

Il racconto che segue, nudo e crudo, ha l’intento di mostrare uno dei tanti aspetti della vita dei giovani adolescenti, un aspetto purtroppo reale e di cui spesso gli adulti ignorano l’esistenza perché convinti che i propri figli siano lontani dal mondo delle droghe e che mai in nessun modo ne verranno a contatto. L’esperienza dei protagonisti di questa storia vuole spingere adolescenti e genitori a riflettere su un tema di forte attualità di cui probabilmente non si parla mai abbastanza in famiglia. L’informazione e il confronto su questa tematica sono di fondamentale importanza affinché si possa aiutare le nuove generazioni a relazionarsi e a vivere in maniera più consapevole.

Molti adolescenti credono che per divertirsi, per evadere dalla noia, sia necessario “sballarsi” e il fatto che si accetti di farlo sporadicamente e solo in alcune occasioni, li tiene lontani dall’etichetta di “tossicodipendenti”. Tuttavia spesso la curiosità, la propensione al rischio e le pressioni sociali impediscono all’adolescente di dire “no” all’invito all’uso.

Le motivazioni che possono spingere gli adolescenti a fare uso di sostanze psicotrope possono essere molte: desiderio di divertirsi o fare qualcosa di diverso; accesso facile alla droga attraverso compagni, amici o ragazzi più grandi; curiosità e desiderio di sperimentare; desiderio di essere accettati dal gruppo; ribellione; depressione; scarsa autostima; sensazione di inadeguatezza sociale; bisogno di superare situazioni stressanti; noia; problemi familiari ecc..

Ma può anche capitare che l’incontro con la droga non sia cercato né lontanamente voluto e avvenga in maniera inconsapevole: così quello che agli occhi degli adolescenti può apparire come un gioco innocuo e divertente, a volte può trasformarsi in una tragedia irreparabile

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Per gli occhi di Elisa

La prima volta che aveva incontrato quegli occhi Luisa sapeva che non se ne sarebbe mai staccata.

Verdi come l’erba dei prati. C’era un volo d’anime nel loro sorridere alla vita. Elisa era un turbinio di entusiasmi, di passioni, di emozioni, più di una sorella, un prezioso punto di riferimento che le dava equilibrio ogni volta che vacillava.

Ora vederli così strabuzzati e spenti le pareva quasi irreale.

-Elisaaaaa, Elisaaaa, perché non rispondi?-

I granelli di sabbia si confondevano con tracce salmastre e quella schiuma bianca sulle labbra era una terribile zona di confine.

Elisa era volata via senza dirle nulla.

Ore prima

-Luisa perché hai deciso di farlo? Perché non vuoi ascoltare i miei consigli? Tu sei una brava ragazza, non hai bisogno di divertirti così. Quel Mike non mi piace, poi è tanto strano.-

-Ahaha! Elisa, sei sempre in ansia per me! Possibile che non mi dai mai fiducia?-

-Dati i precedenti, forse un po’ di ragione ce l’ho, no?-

-Mike è figo, voglio giocarci un po’! Sai cosa intendo: due bacetti, una festa sulla spiaggia con i suoi amici. Cosa vuoi che possa capitarmi? Magari, mettici pure qualche bicchierino di vodka o altri alcoolici, ma, tranquilla, non voglio impasticcarmi. Poi, se proprio ci tieni, c’è un amico di Mike, che ti fa il filo. Non lo dà a vedere perché è un timidone, ma per me è un tipo a posto.-

-Chi? Quello coi rasta che ha un viso d’angelo e due occhi dolcissimi?-

-Sì, proprio lui!-

-Non è male per niente ma… Davvero tu lo vedresti con una come me?-

-Uhm, di primo impatto forse no, però conoscendovi potrebbe scoccare la scintilla. Perché non vieni con noi?-

-E che scuse trovo con i miei? Sai bene che sono severissimi. Abbiamo solo sedici anni, ricordi?-

-Possiamo dire ai nostri rispettivi che abbiamo organizzato un pigiama party, che ne pensi? Che vuoi che succeda? Intanto ci divertiamo e tu mi controlli sul posto, visto che sei di gran lunga più saggia di me-

-Va bene, Luisa, mi hai convinto! Speriamo di non cacciarci in un bel guaio! Chi le sentirebbe le loro lamentele?

-Fidati, Eli, è tutto a posto. Non corriamo pericoli e, se non vuoi bere, non bevi. Se vediamo che la situazione degenera, con una scusa andiamo via. Alle 20:00 ti aspetto a casa. Metti in uno zainetto insieme al pigiama l’occorrente per la spiaggia. Mike verrà a prenderci con la sua auto una mezzoretta dopo. Hanno scelto un tratto di spiaggia abbastanza isolato, dice che lì spesso ci sono feste speciali.

-Ok, non mi sento tanto tranquilla, ma non ti lascio da sola.

Il pomeriggio trascorse rapidamente e convincere le mamme fu una passeggiata. Si conoscevano da una vita e si fidavano abbastanza di quelle figlie dalla faccia pulita per dubitare.

Elisa optò per un costume intero nero abbastanza sobrio, non voleva che quel tipo si facesse chissà quali idee sul suo conto.

Luisa, invece, trasgressiva, scelse un due pezzi molto mini di colore bianco che metteva in risalto la sua pelle abbronzata.

Al suono del citofono trasalì. Aveva uno strano presentimento, ma forse si trattava semplicemente della paura di amoreggiare con un ragazzo più grande. Era completamente fusa per Mike e sapeva di non poter mantenere tutte le promesse fatte ad Elisa.

-Sali- le disse con un tono di voce basso.

-Che c’è? Hai cambiato idea?-

-No, no, fantasticavo! Mike e io.. stasera … insomma… se succedesse, non ti deluderei, vero?-

-Voglio solo che non ti faccia del male da sola. Se ritieni che sia giusto, non posso impedirtelo, ma sta’ attenta!-

Luisa le schioccò un bacio sulla guancia e si sentì sollevata.

-Mia mamma è uscita, le scrivo un bigliettino ricordandole che non deve aspettarmi stanotte e andiamo via.-

-Va bene! Tu, intanto, cambiati se lo ritieni opportuno. Posso prestarti dei trucchi. Un bel rossetto rosso sulle tue labbra carnose starebbe a meraviglia e un po’ di mascara metterebbe in risalto i tuoi occhi verdi. Dai, stasera possiamo esagerare un po’, che dici?-

-Mi hai convinta. Magari quel tipo cambia idea e mi lascia tranquilla.-

-Dubito! Dovrai starne alla larga, altrimenti..-

-No, Luisa, non voglio innamorarmi adesso. Gli studi sono molto più importanti. C’è tempo per l’amore.-

-Quanto sei seria! Ma ti voglio un gran bene per questo!-

Si abbracciarono e scesero contente.

Mike fu puntualissimo. In macchina c’era anche il suo amico, manco a farlo apposta. Elisa guardò Luisa inviperita.

-Non ne sapevo nulla, giuro!- le sussurrò stupita.

-Voglio crederti!-

Quando arrivarono in spiaggia, c’era già tanta gente, molti ragazzi che non conoscevano, musica ad alto volume, falò dappertutto e fiumi di alcool e fumo.

-Mettetevi comode- suggerì Mike.- Noi andiamo a prendere da bere.-

-Io non bevo- ribattè Elisa stizzosa.

-Come vuoi, tranquilla!- si affrettò a dire l’amico di Mike.- Piacere, io sono Luca. Possiamo fare una passeggiata.-

-Ci vediamo dopo.- Luisa le strizzò l’occhiolino e seguì Mike. Elisa si fece coraggio per superare la timidezza e accettò la proposta di Luca.

-Sei bellissima, stasera, Luisa! E quel costume sottolinea le tue curve mozzafiato. Tieni, beviamo birra per il momento.-

Per una astemia, già dal primo sorso la birra mandava in confusione.

-Non ti sei mai ubriacata, vero?- le domandò Mike che cominciava a prenderci gusto.

-No, no, mai! Adesso vorrei andare dalla mia amica, non conosce nessuno e potrebbe annoiarsi.-

-Tranquilla! Ho detto a Luca di occuparsene, è il tipo giusto, non aver paura. Noi possiamo anche fare altro.-

E cominciò a baciarla facendo scivolare le mani sui seni. Luisa rispose a quel bacio appassionatamente e fare l’amore fu così naturale che i loro corpi proprio non riuscivano a staccarsi.

Luisa era strafelice ma pensava ad Elisa. Dall’inizio della festa non si erano più viste e si domandava che fine avesse fatto.

-Mike, vado a cercare la mia amica!- Fece per rivestirsi quando si sentì nuovamente posseduta con una frenesia irresistibile, cedette e dimenticò Elisa per molto altro tempo ancora.-

Dopo la birra, avevano bevuto anche vodka e la lucidità cominciava a venir meno.

Elisa intanto aveva chiacchierato a lungo con Luca, era un ragazzo sensibile e stava bene in sua compagnia. Aveva la gola secca e il caldo era terribile.

-Ho voglia di bere- gli confidò a un tratto.

-Qui non abbiamo acqua, solo alcoolici.-

-Che vuoi che possa farmi un solo bicchierino?-

-Vado a prenderlo e ti raggiungo-

Luca attendeva quel momento dall’inizio. Si avvicinò ad un gruppo di amici e si fece dare una pasticca di ecstasy.

-Questa ha un taglio speciale. La prendi e voli- gli dissero. Non ci dette peso. Riempì un bicchiere di vodka e vi sciolse l’ecstasy. Quella ragazza gli piaceva molto e sapeva che, senza un aiutino, non avrebbe ceduto alle sue avances.

Quando glielo porse, Elisa gli sorrise. Lo mandò giù tutto d’un fiato tant’era assetata.

-Grazie! Adesso mi sento meglio!-

Luca le si avvicinò per coccolarla un po’, ma notò subito il suo pallore e le gocce di sudore sulla fronte.

Stramazzò a terra e spalancò gli occhi. Dalla paura fuggì e la lasciò sola.

-Cazzo! Questa muore davvero!-

Non si voltò più a guardarla. Elisa era già morta.

Luisa barcollava e Mike era strafatto, aveva fumato coca. D’un balzo corse via col cuore che le scoppiava in petto. Forse era l’alcool o il terrore che fosse accaduto qualcosa. I volti erano indistinti al buio e ovunque c’era gente stravaccata e seminuda, completamente persa. Ad un tratto la riconobbe. Luca non era con lei ed era stesa. Immobile!

Contò i passi che le separavano. Cinquanta. Troppi!

Provò a scuoterla, a chiamarla con un filo di voce, a urlare il suo nome fino alle stelle. Elisa non c’era più.

-Che cosa ti ho fatto? Avevo giurato che non sarebbe accaduto nulla, invece ti ho lasciato andar via per sempre.-

Nessuno accorse e la spiaggia lentamente si svuotò. Compose il numero della polizia e dei suoi genitori.

All’agente spiegò che si trovava nel tratto di spiaggia delle feste speciali e in breve si udirono le sirene.

-Mamma… Dovete venire in spiaggia… E’ successo un casino…Qui c’è la polizia ed Elisa è morta-

– In spiaggia? Ma… Mamma, poi ti spiego, promesso… Ho bisogno di te, adesso! Percorri la litoranea, noterai subito le auto-civetta. Se puoi, chiama i genitori di Elisa, di’ che c’è stato un incidente.. Cercherò di spiegar loro l’inspiegabile. Ho paura, mamma, ho paura!-

Gli agenti cercarono di rassicurarla. Era palesemente terrorizzata e sconvolta. Aveva brividi dappertutto.

-Prendetevela con me. L’ho uccisa io. Lei non voleva venire, l’ho persuasa in ogni modo. Non potevo immaginare che finisse così. Era la mia migliore amica, una bravissima ragazza.-

Tese le mani aspettando le manette.

-Signorina, lei non c’entra. Ci spiace per la sua amica, vi siete fatte trascinare da compagnie non adatte alla vostra età. Credete di divertirvi e finite col perderci la vita Se ci aiuta, acciufferemo i responsabili-

-Mi avete ascoltato? Lei aveva detto che non voleva bere. Non so che cosa è accaduto. Purtroppo non ero con lei.-

-Faremo le opportune analisi. Probabilmente qualcuno ha sciolto dell’ecstasy offrendole da bere.-

Le venne in mente Luca, quello dalla faccia d’angelo e dalla mente diabolica. Non conosceva neppure il cognome. Erano spariti lui, Mike, tutti.

Quanta solitudine poteva esserci su una spiaggia all’improvviso deserta!

-Con chi siete venute qui?-

-Con amici o così pensavo-

-Sapresti descriverli?-

-Certo!-

-Più tardi in centrale ci fornirà i dati necessari-

-Figlia mia, come stai?-

La voce calda e preoccupata di sua madre la riportò alla realtà.

-Mamma, perdonami! Ho combinato una cazzata e per colpa mia Elisa.. Sono stordita ma sono viva, dovevo esserci io là, non lei.-

-Elisaaaaaaaaa!-

L’urlo disperato della madre davanti al corpo senza vita della figlia le trapassò il cuore raggelandola.

Finirono le parole, i pensieri. Si spensero anche le lacrime e tutte le stelle. Il cielo era una cappa nera e vuota.

-Volevo bene ad Elisa e non mi perdonerò mai. Non riesco a dire altro, mi creda. Neppure se mi sforzassi..-

Tremava. Tremavano.

-Benedetta ragazza, che vi è saltato in mente? La mia Elisa seria, brava, giudiziosa.. Ti voleva bene anche lei. E adesso? Non la sentirò più ridere, cantare, parlarmi. Non la sentirai più… L’abbiamo persa entrambe! Perché ci avete mentito? Perché?-

-Posso morire anch’io adesso. Che senso ha continuare?-

Un ceffone ruppe il silenzio e le lacrime riaffiorarono in superficie senza potersi perdere più in quegli occhi, negli occhi rassicuranti di Elisa.

-Mamma!-

Si abbracciarono finalmente.

-Elisa non doveva venire stasera. L’ho convinta io, volevo farla divertire. Sempre così precisa, ligia al dovere, più grande della sua età.. Poi, giunte in spiaggia, ci siamo separate. Mi sono appartata con un ragazzo che ho conosciuto ultimamente. Siamo stati insieme a lungo. Elisa à rimasta con un amico che le ho presentato, dovevano fare una passeggiata. Nulla di che. Ad un tratto l’ho cercata e l’ho trovata così. Mamma, Signora, credetemi, non volevo, non volevo.. Elisa era molto preziosa per me..-

– Hai avuto la tua lezione. Mentire non serve a nulla. Non è un sano divertimento questo!-

-Elisa voleva studiare e diventare chirurgo. Era il suo sogno e s’impegnava ogni giorno-

-Sono io la pecora zoppa, Signora e lei mi sosteneva sempre ascoltandomi, correggendomi.-

-Vienimi a trovare di tanto in tanto, raccontami di lei, della vostra amicizia, dei vostri pensieri-

Luisa si sentiva lacerata. Restò in silenzio finché non arrivarono in centrale. Descrisse in maniera particolareggiata Mike e Luca, purtroppo non conosceva il loro cognome.

-Li troverete ai giardini. Si incontrano lì alle 12:00 circa, ogni giorno. Qui a Sapri li conoscono in molti. Suonano anche in una band.-

-Grazie per la collaborazione. Adesso può andare.-

Era quasi l’alba. Il cielo non le bastava più. Per gli occhi di Elisa doveva diventare molto più grande. Immenso.

Luisa si coprì il volto e scivolò in un sonno profondo per dimenticare.

(Angela Aniello)

 

La paura della paura

Un racconto per riflettere sulle paure nei bambini, argomento che spesso mette in difficoltà i genitori e li spinge a trovare strategie per calmarle e ridurle

Il racconto che segue, tenero e realistico, ci aiuta a riflettere sulle paure nei bambini, argomento che spesso mette in difficoltà i genitori e li spinge a trovare strategie per calmarle e ridurle.

A volte la parola “paura” crea di per sé uno stato di agitazione, ma è importante tenere a mente che si tratta di un’emozione e la cosa più importante da fare è accettarla, comprenderla, non negarla solo perché è un emozione spiacevole.

Tutti i bambini vivono la paura con conseguenti reazioni fisiche istintive. Spesso queste reazioni sono utilissime in quanto costituiscono un meccanismo di difesa, che mette in allarme l’organismo quando ci si trova di fronte a qualcosa che si percepisce pericoloso o che non si conosce… e i bambini conoscono ancora poco del mondo che li circonda, per questo si sentono indifesi!

Le paure dei bambini nascono dal loro mondo interno e le insicurezze sono spesso alimentate dalla spiccata fantasia tipica del mondo infantile e dalla convinzione che anche gli oggetti sono animati.

Il mondo dei bambini è talmente ricco e profondo che spesso per gli adulti è difficile entrarci con tranquillità e senza lasciarsi travolgere dalle emozioni negative, allora è utile tenere a mente alcuni concetti:

  • occorre accettare che le paure dei bambini sono legittime, non serve forzarli a diventare coraggiosi o minimizzare e deriderli;
  • è importante rispettare i loro tempi e ascoltare con attenzione e disponibilità i racconti delle loro paure;
  • è utile che i genitori si alleino con i bambini perché in questo modo comunicano la loro disponibilità a lottare insieme contro le loro preoccupazioni e paure facendosene carico e mettendosi nei suoi panni

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

La paura della paura

Da un po’ di tempo ero cambiato.

Avevo superato abbondantemente i miei 6 anni, diciamo che ero prossimo a compierne otto, ma mi sentivo stranamente più piccolo.

La realtà si era deformata ai miei occhi. Non era diventata più grossa, no! Più profonda, più nera, più cupa.

Di notte avevo incubi che mi bloccavano il sonno e mi inducevano a pensieri a me sconosciuti. Anche mamma si era accorta che ero diverso.

Luca, poi, con le sue faccine strane e divertenti mi distraeva e per un po’ mi faceva dimenticare.

Ma a sera, precisamente al buio, perdevo ogni certezza recuperata e il mondo mi crollava letteralmente addosso. Anche le parole! O soprattutto le parole.

Sudavo, m’infilavo sotto le coperte completamente fino quasi a non respirare.

Anche col caldo.

-Dov’è? Dov’è Gasparre?-, si divertiva a prendermi in giro mamma quando scomparivo nel letto.

-Non c’è, non c’è!-, le rispondevo con tono quasi tranquillo per nascondermi.

Eppure avevo letto da qualche parte che questi fenomeni potevano accadere prima. A tre anni o quattro. Ma a otto?

Ero curioso e leggevo tutto ciò che mi capitava sotto mano. Mamma comprava molte riviste sui bambini e mi ci ero appassionato.

Una notte sognai un’ombra nera e con occhi di fuoco che mi soffocava. Nera e sempre più grande man mano che si avvicinava.

-Mammaaaa!-, urlai con quanto fiato avessi in gola.

Accorse rapidamente spaventata.

-Mamma, c’è un drago nella stanza e vuole portarmi via. E’ altissimo, coperto di squame verdi, ha due denti grandi e affilati e dalle sue fauci esce una fiamma enorme. Ho paura… Ho paura.. Vuole mangiarmi, lo so-

Mamma mi accarezzava mentre raccontavo terrorizzato.

-Non andare via, non lasciarmi solo!-

Si infilò nel mio letto e lentamente mi riaddormentai.

Quella visione era ancora nitida davanti ai miei occhi anche il mattino dopo.

Sorseggiai il latte controvoglia. Non mi piaceva quella sensazione di paura.

-Mamma, non voglio più fare sogni brutti! Quel drago era così vero e mi sembrava di soffocare dinanzi alla sua grande fiamma.

– Gasparre, può succedere che i sogni a volte non ci piacciano. Anch’io, a volte, ne sono turbata e ho paura come te ma so che non sono veri e pian piano mi tranquillizzo. Devi respirare e ripeterti che non devi aver paura-

-Ma io non ce la faccio. mi sento talmente solo in quei momenti che perdo il controllo e tremo.

-Raccontami ancora di quel drago antipatico. Che combinava?

– In realtà, niente di particolare. Mi fissava con i suoi occhi terribili. Avevano una luce rossa, cattiva e poi era armato, mamma.

-Armato?

– Sì, roteava due bastoni anch’essi infuocati prima di scagliarli contro di me. Allora ho urlato con quanto fiato avessi in gola e sei arrivata tu.

-Per fortuna, Luca dormiva come un ghiro e non ha sentito nulla. Altrimenti avresti spaventato anche lui.

-Sei sicuro che quel drago ti avrebbe assalito?-

– No, però mi ha terrorizzato!-

-Adesso, sai che quell’antipatico non esiste, vero?

– Sì, mamma. Ma non ho ancora capito come combattere la mia paura. Basta che scende il buio e cominciano i guai per me.

-Che pensi del buio?

-E’ un grande imbroglione il buio! Somiglia a un paese sconosciuto pieno di trappole…-

-E di mostri, vero?-

-Ehm… sì, non volevo dirlo.-

-Guarda che non ti devi vergognare! E’ normale provare queste sensazioni alla tua età. Il buio non cambia la natura degli oggetti. Un tavolo resta un tavolo, uno spigolo non diventa una finestra per i mostri e i mostri non entrano in casa. Anzi, non esistono affatto!-

-Allora perché mi sento inquieto?-

– Perché la paura ti porta via le sicurezze e sei più fragile. Temi che da un momento all’altro qualcuno arrivi da qualche parte e possa farti del male.-

-Verissimo! E’ esattamente così che mi sento!-

-Bevi il latte che si è raffreddato nel frattempo. Poi, ne riparliamo. D’accordo?-

-Quant’è preziosa la mamma!-, mormorai con animo più sereno.

Luca si precipitò in cucina col suo allegro sorriso che riempiva tutta la stanza. E pensare che all’inizio per la mia assurda gelosia non lo volevo! Adesso non avrei saputo farne a meno. Mi bastava giocare un po’ con lui per dimenticare tutto. Aveva due anni e provava a ripetere ogni parola che pronunciavo per prendermi in giro.

Gli piaceva sentirmi canticchiare o leggere filastrocche, la sua passione!

-Che ne dite di giocare agli esploratori stasera?- domandò mamma facendomi l’occhiolino.

-Setacceremo la cameretta al buio, con l’aiuto di una torcia esplorando ogni angolo e, se troveremo un mostro, gli faremo la pelle a quel birbante.-

-Ne inventi sempre una, mamma!- risposi felice.

-Io, io esplorare- disse Luca muovendo il pollice contro il petto, nel caso non l’avessimo capito che voleva essere dei nostri.

La giornata trascorse tranquilla. All’imbrunire cominciai ad avvertire un peso in mezzo al petto, quasi vicino al cuore.

Impallidii e mamma si preoccupò.

-Gasparre, cos’hai?-

-Non mi sento bene.-

Luca mi osservava e sicuramente non capiva nulla ma rimase fermo a spiarmi.

-Va’ a prendere la torcia dal cassetto della cucina. Poi spegneremo le luci e diventeremo agenti speciali in cerca del cattivo.

-No! Buio! Bua io!- rispose Luca piagnucolando ricordandosi che settimane prima di sera per farmi uno scherzo aveva spento la luce ed era inciampato in un giocattolino facendosi male al ginocchio.

-Tranquillo, Luca, ci sarò io!

Accesi d’istinto la torcia. La sua luce sembrava dilatare gli oggetti: i quadri appesi nel corridoio, gli spigoli dei mobili. Ci dirigemmo subito nella cameretta. Papà sarebbe rientrato più tardi e avevamo ancora tanto tempo per giocare.

Gocce di sudore rotearono sulle guance come lacrime, anche se non lo erano. Sentivo il fiato sul collo di mamma che mi seguiva e quello irregolare e stupito di Luca a cui mamma aveva preso la manina.

-Osserva- mi disse –e descrivimi cosa vedi e cosa senti.-

-Tutto è diverso!-

-Tocca, non aver timore! Segui il profilo dei lettini, esplora l’armadio, il soffitto, il pavimento, la tenda-

-Non ci sono mostri, mamma! Non c’è neppure il drago, ma può tornare stanotte..-

-E’ solo un sogno. Tu caccialo e vedrai che scompare-

-Ti voglio con me stanotte-

– No, Gasparre! Io veglio sempre ma tu devi essere più forte della paura. Hai visto? Non c’è nulla, non c’è nessuno qui che possa farti del male. Me lo prometti che ci provi a combattere?-

– Sì, sì, voglio provarci. Ma… se grido, tu vieni?-

-Certo! Non urlerai, lo so. Sei un agente speciale davvero forte!-

Luca si era addormentato. Da solo si era infilato nel suo lettino.

-E’ coraggioso, lui!- e sorrisi.

-Anche tu!- e ci abbracciammo.

Spegnemmo la torcia e la luce restituì normalità ad ogni cosa. Sentivo che non era facile, ma tentare che mi costava?

Cenammo e papà mi diede un bacio sulla guancia. Era un rituale fra noi quel bacio. Era il suo modo di dirmi che mi voleva bene, un gran bene.

Avevo sonno e mi stavo trattenendo un po’ per ingannare il tempo.

-Va’ a dormire, ometto! Tra un po’ cascherai dal sonno!-

Mamma mi accompagnò e mi rimboccò le coperte.

-Ricorda, campione, combatti!-

Annuii senza tanta convinzione.

Quella notte sognai ancora. Non era solo il drago a venirmi incontro. Mostri di tutti i tipi volevano attaccarmi. Ma stavolta ero armato e non avevo affatto paura.

Scivolai nel sonno sereno per aver resistito.

Quando aprii gli occhi, incontrai subito quelli di mamma che mi osservava.

-Ho combattuto!-

-Lo so e hai vinto tu!-

-Sì, sono felice!_

-Anch’io!-

-Pue io-

Le carezze e le feste di Luca mi fecero sentire fortunato e fiero di me. Finalmente!

(Angela Aniello)

 

Come una funambola!

Un racconto per riflettere su una problematica con cui molti adolescenti si trovano a combattere: la bulimia nervosa

Il racconto che segue, nudo e crudo, fa rabbrividire per le emozioni forti che trasmette e permette al lettore di calarsi in una problematica con cui molti adolescenti si trovano a combattere: la bulimia nervosa. Si tratta di un disturbo del comportamento alimentare che comincia quasi sempre con il desiderio di perdere peso e con la convinzione di essere grassi e poco attraenti. Ci si convince che dimagrendo si possa essere più felici e in grado di realizzare i propri desideri. Ma la cosa di cui i bulimici non sono sempre consapevoli è che abbuffarsi per poi indursi il vomito, non è altro che un modo fallimentare di gestire le emozioni sgradite. Il sentirsi meglio dopo aver compensato con il vomito l’abbuffata, il placarsi dell’ansia e della paura dura solo pochi minuti per lasciare spazio al senso di colpa e di inefficacia. Essi credono di poter controllare questi atteggiamenti, ma è solo un’illusione: ad ogni episodio di abbuffata, queste condotte si irrobustiscono e si auto-rinforzano, innescando così un circolo vizioso difficile da spezzare.

Quasi sempre la bulimia nervosa è legata a fattori familiari, psicologici e sociali e non stravolge solo i comportamenti alimentari, ma anche altre aree importanti della vita della persona. E’ frequente la rinuncia alle situazioni sociali che comportano lo stare a tavola con gli altri, oppure il diventare ansiosi e irritabili rendendo i rapporti con gli altri molto difficili e tesi e condizionare negativamente una relazione amorosa come è successo alla protagonista di questa storia.

Risolvere questo problema è possibile, ma oltre ad un percorso di psicoterapia, è di fondamentale importanza una diagnosi precoce e il supporto della famiglia.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Come una funambola!

Non mi piacevo. Mi aveva mollata a aveva fatto bene. Chi se la filava una come me?

Odiavo specchiarmi. Lo specchio mi deformava allargandomi. Li avevo rimossi tutti da casa mia, avevo pregato la mamma di farlo per aiutarmi.

Vedermi brutta mi demoralizzava. Se poi dovevo immaginarmi anche cicciona, i problemi cominciavano ad esser pesanti.

Mauro non aveva retto.

“Tu mi stressi! Tu e le tue fottute fissazioni”

Ero rimasta a guardarlo senza parlare. Sapevo che aveva ragione ma non riuscivo a cambiare.

Mauro era speciale: uno di quei ragazzoni che sanno ascoltarti e ti sanno amare. Mi piaceva perdermi nei suoi abbracci.

Era come se il mondo mi facesse un inchino allora e mi sentivo bellissima. Poi, al di fuori di quel perimetro, si scatenava l’orrore.

Da quando ci eravamo lasciati stavo ore e ore ad ascoltare musica riversa sul letto. La scuola era finita da poco e tutti parlavano delle sospirate vacanze. Tutti tranne me!

“Perché te ne stai sempre chiusa in casa?”, mi domandò la mamma stanca di vedermi razzolare come una gallinella inquieta da una stanza all’altra.

“Non mi va” e tagliavo corto alzando la musica a tutto volume per farla andar via.

A volte avrei quasi desiderato che si fermasse ad ascoltare un po’ di musica con me.

Due donne sole e forti eravamo. Un po’ matte e un po’ sante. Mai leggere. Dio un giorno l’avevamo mandato al diavolo. Quando il dolore ci aveva fatto raffreddare il sangue e sentire abbandonate.

Musica per dimenticare. Per bersi il cervello. Per non fottersi l’anima con la paura.

“Tieni ben strette le gambe e non soffrirai”, mi aveva ripetuto fino alla nausea quando non aveva altro da dirmi.

Povera mamma! Era così visibilmente preoccupata e io ci provavo quasi gusto.

Non so se era più insano il mio crogiolarmi nel dolore o il provocarlo senza motivo a chi amavo di più.

“Tu stai fuori!”, mi urlò appresso Mauro due o tre giorni dopo, quando finsi di non vederlo per non spiegare.

Era arrabbiatissimo, strinse i pugni più volte quando mi raggiunse e mi bloccò.

“Perché lo fai? Perché?”, mi domandò strabuzzando gli occhi color nocciola e inanellando i ricci che cadevano a cascata sulla fronte.

Non reagivo, non avevo la forza di ammettere a me stessa che ero strana.

Mi strattonò, mi abbracciò, mi strinse per farmi capire che c’era ancora. Ma io non risposi e lo lasciai andar via per sempre.

Avevo solo quattordici anni, ma dentro ero sospesa.

Come una funambola!

Le invidiavo le funambole. Erano in grado di camminare nel vuoto, a mezz’aria, con lo sguardo proiettato in avanti, sfiorando le nuvole come a volare. Quando aprivano le braccia, spegnevano i pensieri per restare in equilibrio.

Io non sapevo più credere in Dio, avevo un cuore in totale decadenza ed ero succube della spirale perfetta d’imperfetti pensieri.

Mi ci ero chiusa da sola come in una torretta d’avorio. Inquieta contemplatrice dello svolgimento del mio malessere.

Mamma aveva stretto da tempo le gambe. Dopo l’ultima violenza subita da quell’essere immondo di mio padre, alterato dall’alcool e dalla sua nevrastenia.

Ero cresciuta in compagnia delle loro frequenti liti. Ad un certo punto erano subentrate le botte e lì avevo cominciato a chiudermi in camera per terrore con la mia musica ad altissimo volume.

Perdevo il sonno e trascorrevo le notti con le mani sulle orecchie per non sentire: anche il silenzio faceva troppo rumore! Ogni suono dall’esterno giungeva ovattato e brumose canzoni si affacciavano alla soglia della coscienza errabonda.

Detestavo mio padre! Non sopportavo il puzzo di vino che si portava addosso. Masticava amarezze e spargeva attorno veleno come un cobra pronto ad attaccare nel crepuscolo della sua follia.

E sputava sangue ogni volta che costringeva mia madre ad “aprire le gambe” con una violenza selvaggia e inenarrabile.

Si beveva le sue lacrime e le sue ultime energie.

Povera donna! Aveva smesso di combattere. Cedeva e vomitava. Cedeva e poi le stringeva sempre più forte.

Mauro sapeva e mi amava. Ci aveva provato con me, ma io gli dissi che le ragazze alla mia età non devono aprirle le gambe. Me l’aveva consigliato mamma.

Lui capì e non me lo chiese più e io lo apprezzavo. Ma non ne ero innamorata. Gli uomini mi facevano schifo e l’unico con cui mi confidavo era lui, che era diverso da tutti gli altri.

Una sera mio padre rincasò furioso cercando mamma. Qualcuno gli aveva raccontato che voleva lasciarlo e minacciò di ucciderla.

Afferrò un coltello. Mamma stava preparando la cena.

Non ci vidi più.

Aprii la porta e lo invitai ad andarsene o avrei chiamato la polizia.

Farfugliò qualcosa di incomprensibile, imprecando.

“Capisci che mi vergogno di te? Vattene prima che tu possa pentirtene. Sei di troppo qui. Nessuno ti vuole!”

Lasciò cadere il coltello, piegò il capo in una smorfia e uscì.

Fu l’ultima volta che lo vidi. Lo trovarono morto in un vicolo la sera stessa. Suicida.

Da allora mia madre le tenne sempre più strette le gambe e cominciò ad assillarmi.

Smisi di mangiare in maniera normale.

Forse non lo avevo mai fatto. Quando ero nervosa già tendevo a ingurgitare di tutto, per farmi male.

Adesso esageravo. E mi vedevo immensa, come una balena.

Mi facevo pena e gli specchi sembravano darmi ragione.

Sbraitavo, piangevo e mamma, preoccupata, acconsentì subito a eliminarli.

Non sapeva ancora che ogni notte puntualmente vomitavo.

All’inizio era quasi un gioco. Poi divenne una necessità, un bisogno compulsivo di liberarmi, di purificarmi.

La chiamavano bulimia nervosa.

Andai subito a leggerne la definizione: “uno dei più comuni disturbi alimentari, caratterizzato da alternanza di abbuffate fuori controllo e restrizione alimentare.”

Non so perché ma mi immaginai funambola. Ebbi una terribile sensazione di estraneità da me stessa.

Come avrei potuto camminare sospesa su una fune col mio peso? Potevo aggrapparmi alle nuvole con la fantasia. Potevo immaginare l’ebbrezza del vuoto e del volo.

Poi rividi il corpo di mio padre che si era tolto la vita con una fune.

“Che strano! Chi ci cammina su e chi vi precipita!”

Mi salì dal petto una risata sarcastica.

Non avevo versato una lacrima da quel giorno. Né mi ero sentita in colpa. Non gli avevo detto io di uccidersi. Aveva scelto da solo. Cosa buona e giusta. Amen!

Si chiudono così le preghiere, ma io ricordavo solo “amen” e nel mio caso significava: “ E così sia! Ben fatto!”

Ridevo e singhiozzavo ma senza lacrime.

Era troppo il dolore che avevo trattenuto. Troppo il veleno sparso su di me.

Neppure al cimitero riuscii a pensare alla sua follia come a un’intelligenza superiore. Chiusi gli occhi e cominciai a inventarlo. Il puzzo di vino ancora mi perseguitava. Qualcuno aveva deposto un fiasco vuoto irrorando la terra dov’era sepolto.

“Un altro folle. L’unico possibile compagno!”

Gli altri li aveva persi pian piano. Erano venuti meno gli affetti, i baci veri, gli abbracci sentiti. E il tempo era diventato tragico.

Non so come aveva resistito mia madre.

“Stai dimagrendo troppo, figlia mia”, mi sussurrò un giorno stendendosi sul letto al mio fianco.

“Volerai nel vento”…

“Con le gambe strette!”, aggiunsi io abbracciandola.

Finalmente era venuta da me.

“Tu non vedi, mamma cara! Sono una balena e le balene non possono volare!”

“Balena? Ti sei guardata ultimamente?”

“Non ci sono più gli specchi, ricordi?”

“Forse dovremmo rimetterli!”

Ci addormentammo abbracciate. Mi risvegliai con una voglia pazza di vomitare.

Cercai di non far rumore.

“Martina?”

Mi stavo asciugando la bocca, quando mi raggiunse in bagno. Pallida come un cencio. Con gli occhi rossi dallo sforzo.

“Martina, che stai combinando?”

“Nulla! Tutto a posto! Solo un po’ di nausea.”

“Ma se non hai quasi toccato cibo!”

In un lampo capì e mi guardò inorridita. Con gli stessi occhi vuoti che avevano contemplato e seppellito mio padre.

Non potevo reggerlo quel dolore.

Scoppiai a piangere. Un pianto isterico. Convulsivo.

Mi resi conto che il suicidio di mio padre pesava come una colpa oscura, non ancora ammessa.

L’animo turbinava come le emozioni. Come il veleno peggiore che avessi potuto ricevere.

“Tu non puoi morire!”

La sua voce ferma, pacata, dolce mi avvolse.

“Tu sei leggera e devi combattere contro il vento che può portarti via soffiando. Ti aiuterò. Andremo da uno specialista, ma non devi mollare. Tuo padre ci ha fatto tanto male, ma prima ci amava. A modo suo. Ora dobbiamo essere felici. Mauro chiama ogni giorno, mi chiede di te…”

“Il mio caro Mauro che non molla…”

Prima o poi lo chiamerò.

Adesso è presto. Ho bisogno di te. Ho bisogno di me!

“Sono debole, mamma e voglio dormire. Ricomincerò da ogni assurdità, dal tempo che non ho sentito, da quelle foglie morte all’unisono senza sole. Ricomincerò dai rumori della strada e da tutte le porte chiuse, suonando il campanello. Come una funambola! Coraggiosa!”

“E io ti sosterrò, per non farti cadere. Il vento è più pacifico se lo addomestichi e lo conosco bene. Mi ascolterà!”

(Angela Aniello)

 

Io quello lì non lo voglio!

Un racconto per riflettere sulle reazioni dei bambini alla nascita del fratellino

Il racconto che segue permette al lettore di proiettarsi, simpaticamente, ma con una punta di drammaticità, nei fervidi pensieri di un bambino che si trova di fronte alla più grande novità della sua vita: avere un fratellino… non essere più figlio unico… acquisire il ruolo di fratello maggiore.

E’ ben risaputo che la nascita di un bimbo è un momento molto delicato e complesso nella vita di una famiglia, la costringe a rivedere le vecchie dinamiche e a ristabilire un nuovo equilibrio. Questo processo, seppur naturale, pone i genitori di fronte a sfide sempre nuove e si può immaginare quanto questo possa essere ancora più difficile per il fratellino del nuovo arrivato che si trova, tutto ad un tratto, a fare i conti con molte paure e sentimenti ambivalenti.

Il primogenito è stato il centro indiscusso della famiglia, ma con l’arrivo del fratellino si troverà costretto a dividere con lui amore, tempo, spazio, oggetti e attenzioni. Così il “cocco di casa” deve abituarsi alla presenza di un membro in più, che solo per il fatto di essere così piccolo, cattura l’attenzione e la tenerezza di tutti gli adulti…così il primogenito, seppur ancora piccolo, viene visto come “il grande” ed è costretto a pensarsi “grande”.

Le reazioni da parte del bambino possono essere tante, imprevedibili e scaturiscono quasi sempre dalla paura di perdere l’esclusività nel rapporto con i genitori, di non essere più al centro del loro affetto e delle loro attenzioni, di non essere più amati! Spesso il vissuto è quello di una forte gelosia, come in un tradimento: il bambino vorrebbe che la mamma fosse tutta solo per lui perché teme che il suo amore possa essergli sottratto per essere dato al fratellino.

La gelosia è un sentimento naturale e spontaneo, che va compreso, accettato e non giudicato come comportamento sbagliato perché è innato e non riconoscerlo sarebbe come negarlo.

Alcuni bambini possono vivere l’arrivo del fratellino in maniera davvero negativa, come una imposizione, una violenta invasione che fanno fatica ad accettare. Le reazioni e l’intensità della gelosia hanno a che fare con il carattere del bambino, con la sua capacità di sopportare la frustrazione e anche con il tipo di rapporto che si crea con i genitori

Le manifestazioni di disagio e aggressività del primogenito possono essere riconosciute e meglio comprese anche osservando i loro disegni, ma la cosa più importante è ricordare che la tenerezza, l’ascolto e l’amore sono in grado di sanare qualsiasi ferita e di rassicurare il bimbo che i genitori continuano ad amarlo e a prendersi cura di lui.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Io quello lì non lo voglio!

Più lo guardavo, più mi sembrava un nemico.

Poi era tanto brutto!

Mamma volava convincermi che fosse bello come me.

Figuriamoci!

L’avevo atteso come un giocattolo da rompere. Non l’avevo mai voluto. Adesso lo odiavo.

“Che tesoro!” “Guarda come muove le manine!” “Sarà intelligente, si vede!”

Di me non si accorgeva più nessuno.

Non ero interessante. Non ero bello. Non ero intelligente.

Ero solo e basta.

Avevo appena compiuto sei anni e per sei anni ero stato l’unico.

Baci, abbracci, carezze riservati a me.

Lui, il nemico, mi spiava a volte ma non ci cascavo. Mi voleva conquistare con i suoi sorrisini e gli occhioni azzurri e vispi.

Quando si è nemici, non bisogna cedere. E’ un atto di debolezza e io non ero una femminuccia.

Niente lacrime, niente parole.

Sentivo crescere in me un grande dispiacere e non potevo farci nulla.

“Giocherete insieme a calcio. Vi divertirete”

Perché gli adulti non capiscono che a volte è meglio tacere?

Ero un bambino ed ero già in guerra.

Avevo la guerra esattamente in testa, in mezzo a quelle ciocche ribelli e dispettose.

Non avevo ancora deciso cos’è che mi desse fastidio.

Forse già il nome.

Uno che si chiama Luca non mi sembrava decisamente interessante.

Già avevo faticato ad accettare il mio di nome, Gasparre.

Col tempo mi ci ero abituato e mi ero abituato ai miei spazi. Grandi, immensi.

Ora tutto era più ristretto.

I cassetti dell’armadio.

La mia stanza dei giochi dove era stato depositato di tutto.

La mia cameretta. Ci avevano piantato un lettino carino, devo ammettere, ma così triste!

Io l’avevo superato il tempo degli orsacchiotti e dei merletti, delle bavette lattiginose, delle ninnenanne prolungate.

Io ero stato dimenticato.

Mamma, si era accorta del mio broncio.

Aveva cominciato a raccontarmi storie assurde.

Tutte fantasticherie che non mi riempivano.

Prediche snocciolate come grani di rosario che non potevano essere preghiere.

Dovevo ancora imparare a pregare.

Dovevo ancora imparare a sognare.

Forse ero a metà strada verso i sogni e non coincidevano esattamente con un tipo come Luca, il mio fratellino.

Un giorno, mamma, me lo mise fra le braccia.

“Tienilo un po’ e coccolalo! Dovete conoscervi!”

Le lanciai un’occhiataccia.

Avrei potuto romperlo davvero quel giocattolino indesiderato ed eliminarlo per sempre, ma mi sentivo spiato.

Mi guardava con i suoi occhioni e sorrideva.

Per la prima volta fui costretto ad osservarlo con attenzione.

In fondo, non era affatto brutto. Però non mi somigliava!

Era un estraneo.

Dimenava piedini e manine. Sembrava volesse giocare.

Ad un tratto mi venne da ridere tant’era buffo.

“Mamma, non ti bastavo?”

Bruciava quella domanda come tutte le lacrime che non avevo versato.

“Certo, tesoro! E mi basterai sempre. Così come mi basterà, Luca!”

“Che bisogno c’era di lui? Eravamo così perfetti io, te e papà!”

“L’amore non basta mai, Gasparre. E non volevo che restassi solo!”

“Io solo? Felicissimo, mamma, della mia solitudine!”

“Ma, Gasparre…”

“Ora non hai più tempo per me. C’è sempre Luca, solo Luca, per tutti. I regali per Luca. Le attenzioni per Luca. I baci per Luca.”

“Amore mio, tu sei geloso. Per me non è cambiato nulla e ti voglio sempre bene”

Provò ad abbracciarmi, le resi Luca e corsi nella mia cameretta.

Ero tanto geloso da non riuscire a nasconderlo. Soffrivo di essere escluso. Ai bambini va spiegato l’amore quando cambia e stavolta non riuscivo a capire o forse non volevo. Mi piaceva essere egoista, volevo la mamma tutta per me. Mi mancava e non sapevo come dirglielo.

Mi misi a giocare con le macchinine.

Feci volutamente rumore.

Luca doveva essersi addormentato fra le sue braccia. Il suono della sua voce mi urtava.

Come ogni tenerezza a lui riservata.

Avrei voluto chiudere gli occhi e non pensare.

Dicono che quando i bambini li chiudono, cominciano subito a sognare.

Udii un rumore di passi.

Due braccia forti mi misero nel lettino e mi lasciai cullare.

Non stavo dormendo e neppure sognando, ma era come se lo fosse.

Poi un respiro diverso riempì l’aria.

Luca era vicino.

Non c’entrava nulla con me, ma ahimè, dovevo dividere quello spazio con lui.

Prima o poi l’avrei distrutto.

Crollai e sognai draghi sputafuoco e giardini incantati, spade di principi e un cumulo di giocattoli rotti. Ma Luca non c’era, neppure nei sogni.

Mi svegliai col suono di un bacio e un paio di manine che affondavano nel mio viso.

Ce l’avevo vicino nel letto e la mamma mi sorrideva. Ci sorrideva.

Quant’era bella!

Mi riempii di saliva, della sua bocca che suggeva le guance, dei suoi occhioni a cui non sfuggivo.

Il mio fratellino era tanto pestifero e carino.

Per un attimo fui quasi felice.

Poi sgattaiolai come un ladro dal letto. Mi ero quasi commosso e io ero in guerra.

“Dove corri?”, mi domandò mamma stupita.

“Vado a combattere!”, risposi d’istinto.

Accidenti, mi ero scoperto!

“A combattere con chi?”

“Con i giocattoli che non posso rompere!”

Scosse la testa. Secondo me pensò che fossi pazzo.

Trascorsi la mattinata senza far nulla di particolare.

Volevo distrarmi. Accesi la tv ma non c’era nulla di interessante. I soliti noiosi cartoni!

“Luca, vieni !”

La voce della mamma suonò come un ordine.

Corsi.

“Aiutami a cambiare Luca!”

Arricciai il naso, aveva fatto la cacca e urlava.

Provai a canticchiare qualcosa per calmarlo. In fondo, potevo romperlo anche più tardi.

Era una gran fatica tenerlo fermo e mettergli il pannetto pulito.

Mi accorsi che cominciavo a guardarlo in maniera diversa. Non era più così estraneo, mi stavo abituando a lui.

Qualcosa era cambiato.

Avevo altro a cui pensare e non solo a me.

Questo era strano. Questo era forte.

“Perché non provi a disegnarlo?”

“Cosa?”

“Quello che provi!”

La mamma ne inventava una ogni secondo e conosceva i miei punti deboli.

Sapeva che adoravo disegnare e che non riuscivo a dire di no.

“Ci proverò, magari fra un pò!”

“Adesso!”

Presi un foglio, matita e colori e cominciai a pensare.

“Come si disegna la guerra?”

Non mi vennero in mente linee spezzate, ma linee curve come quella dei baci.

Strano che associassi Luca ai baci.

Forse a quelli mancati. A quelli che ancora non gli avevo dato.

Tracciai un cerchio e due cuori intrecciati che ridevano come i bambini.

Intorno c’erano tante stelle. Quelli erano i sogni.

Colorai con forza, precisione, passione. Usai colori vivaci.

Sentii l’amore scorrermi dentro.

Mamma spiava ed era felice.

Forse non ero più in guerra.

Dovevo solo ricominciare da quello spazio sognato da dividere ancora.

Bisogna sempre spiegargliele le cose ai grandi, ma anche ai bambini.

E da un disegno si impara molto di più!

(Angela Aniello)

 

Non si muore mai una volta sola!

Un racconto per riflettere sulla separazione dei genitori

Quando l’immagine dei propri genitori uniti e innamorati ad un tratto svanisce, si fa spazio alla tristezza, ad un dolore struggente e spesso muto paragonabile ad un lutto.  Ad ogni dolore è come “morire” e “non si muore una volta sola!”.

Questo commovente racconto pone la su attenzione non solo sui genitori traditi, ma soprattutto sui figli e sulle loro reazioni. Il mondo interiore è completamente sconvolto e possono essere molti i modi di reagire di un figlio che vede i propri genitori allontanarsi sempre di più. Sono “figli traditi” perché è esattamente così che si sentono: arrabbiati e feriti.

Il dolore provato da un figlio di fronte alla separazione dei genitori va affrontato con delicatezza e cautela, sapendo che non può essere smaltito facilmente e che in questo processo l’aiuto dei genitori e ai genitori è fondamentale. Ciò che è importante ricordare è che ci si può separare dal partner, ma non dai figli; essi vanno rassicurati e soprattutto va garantita loro la possibilità di mantenere un legame con entrambi i genitori.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Non si muore mai una volta sola!

Non si muore mai una volta sola!

I grandi sono davvero convinti che per morire ci sia ancora tempo e non si accorgono dei minuti che si fanno rubare dalla fretta di vivere.

Io avevo sedici anni ed ero già morta tante volte. Non avevo più paura di morire. Forse, prima che cominciassi a farlo, ero d’accordo con i grandi e non ci pensavo.

Poi, dopo la prima volta, mi accorsi che anche la paura cambiava volto.

Me l’avevano descritta come un qualcosa di troppo grande da affrontare. Ora ci ridevo su.

“Viola, ma tu non hai mai paura?”, mi domandò quella curiosona di Marta.

“Io? No!”

Fu talmente secca la mia risposta che si defilò subito, con le labbra inumidite di gelato e saliva.

“Marta non è ancora cresciuta”, pensai e mi fece quasi tenerezza.

Io ero già grande da un pezzo.

Da quando avevo smesso di giocare con le bambole.

Da quando avevo capito che gli adulti dicono un sacco di cazzate e s’illudono di prenderti in giro, come se il tuo cervello avesse un funzionamento pari a zero.

Da quando avevo imparato che la paura era addirittura più forte della solitudine.

Perché, fin quando ti senti solo sola, ti chiudi in te stessa e dici addio al mondo in mille modi plausibili. Ma le cose si complicano molto quando all’improvviso muori del tutto.

Il cuore si ferma. La mente. La tua vita si blocca.

Allora ti ripeti: “Cazzo, sono già morta! E adesso?”

E chi ti risponde se gli altri non lo sanno? Chi si ferma a guardare i tuoi bellissimi occhi e a cogliere un lampo di perfetta assenza?

Nessuno! Né mamma. Né papà. Né quell’antipatico di tuo fratello che se la ride con gli amici ed è convinto di essere il più figo del mondo quando “acchiappa” una ragazza e la mostra agli altri come un trofeo. “La caccia è finita!”, sembra sussurrare.

“Solo per il momento”, ribadisco senza voce.

Ne colleziona una dopo l’altra. Tanto… Chi glielo ha spiegato che l’amore è ben altro?

Certo non i miei!

Io sono morta esattamente un tardo pomeriggio d’estate. Ero uscita con le mie amiche. Ricordo perfettamente che stavamo ridendo ed ero serena.

Ad un tratto ho perso il sorriso e tutto il resto.

“Viola… Ma quello non è tuo padre?”

“Impossibile! E’ fuori per lavoro!”, ribattei stizzita.

“Guarda che è proprio lui e sta baciando un’altra donna!”

“Ma che cavolo dici?”

Mi voltai e dovetti focalizzare più volte l’immagine per convincermi che Marta aveva ragione.

Eravamo amiche d’infanzia ma in quel momento la odiai con tutta me stessa.

Cominciai a correre, prima che la prendessi a pugni per la rabbia.

Pensai a mia madre. A me e a mio fratello.

Alla nostra famiglia “unita”. U-NI-TA?

Balle! Tutte balle!

Balle e bolle di sapone.

Non sono simili alle bolle di sapone gli amori che finiscono? Puoi anche soffiarci con forza e tutto è solo rumore.

Però è dentro che tu scoppi.

Non c’è un prima o un dopo. Basta un minuto.

Corsi a lungo finché rimasi senza fiato e dovetti fermarmi. Tutto era lontano da me. Eppure l’eco delle terribili parole di Marta mi seguiva ancora come un’impertinente cantilena.

“Tuo padre…. Un’altra donna…”

Impazzivo, ma non volevo piangere.

Non lo meritava. Non ci meritava.

Fu allora che capii che non ci voleva molto per morire.

Mi disturbava quella morte e non la ritenevo per niente indispensabile. Con tutta probabilità avrebbe potuto essere solo una grande invenzione se non fosse che il vecchio sarebbe sparito per sempre.

Non avevo paura e non m’ingannava la speranza. Mi sarei liberata dall’imbarazzo di non sapermi gestire.

“Violaaaaa!”

Due urla disperate mi raggiunsero come un fischio assordante.

Ripresi a correre. Ma ero senza fiato.

Dovetti fermarmi.

Mi voltai e vidi i visi stravolti di Marta e mio padre.

Dannazione!

“Viola, non è come tu pensi…”, provò a giustificarsi.

“Balle, balle e poi ancora balle! Abbi il coraggio di non mentire almeno a te stesso, papà!”

Il mio evidente disprezzo fece impallidire anche Marta che, forse, si sentiva in colpa per avermelo detto.

“Non voglio ascoltarvi. Voglio stare sola!”

“Ma Viola…”

Mi girai di spalle e aspettai a girarmi finchè non li sentii andar via.

Fu allora che piansi tutte le lacrime che avevo trattenuto.

“Sono morta e piango!”, pensai sarcastica.

Avrei dovuto smettere di soffrire.

Forse ero morta a metà. Giusto il tempo di non sentirlo per un attimo il dolore.

M’incamminai verso casa. Era tardi. Sicuramente mi stavano cercando.

Non potevo morire senza cicatrici e ne avevo già collezionate un po’.

Le finestre erano illuminate.

Bellissima la luce della luna che si rifletteva nelle pozzanghere.

Aprii la porta cercando di non far rumore.

Li trovai seduti in salotto.

Papà giocava nervosamente con le dita, mio fratello guardava un programma sportivo e mamma mi guardò dritto negli occhi.

“Ti sembra l’ora di tornare, signorina?”

“Ho fatto un giro per distrarmi. Ero con Marta.”

Corsi subito in camera mia senza cenare, senza fermarmi troppo in quella stanza che mi toglieva il respiro.

“Notte, mamma!”

Quando mi misi a letto mi feci la stessa stupida domanda: “Perché a me?”

Questa volta, però, avevo ragione.

Mi ero oscurata perché faceva male vivere così.

Poi, mi addormentai.

Era già tardi quando mamma venne a svegliarmi.

Spalancò le finestre e la luce mi infastidì.

“Voglio dormire! Fammi dormire ancora!”

“Viola… Stai bene? Sei sempre così mattiniera!”

“Sono stanca… Voglio stare a letto!”

“Ti aspetto per colazione. Vestiti, dobbiamo andare in Chiesa.”

“Non ci vengo. Oggi, no!”

“Viola!”

“Ho detto, no!”

Urlammo entrambe, ma la spuntai.

L’idea di sorbirmi chiacchiere sull’amore nell’omelia domenicale non mi rallegrava.

Chi muore, alza i muri e smette di sorridere.

Chi muore non vuole nessun mazzo di fiori sullo stomaco. E quel puzzo insopportabile di vivere inquieti dà la nausea.

“Viola, scendi?”

La voce cavernosa di mio fratello mi stizzì più del solito.

“Lasciami in pace! E sparisci!”

“Sei fuori di testa?”

“Forse, ma non sono affari tuoi!”

La domenica trascorse oziando. Scesi solo per pranzo.

Ero un mostro. Gli occhi gonfi, due terribili occhiaie che m’invecchiavano all’improvviso.

La mamma mi diede un bacio sulla guancia.

“Tu non stai bene!”, mi disse preoccupata.

“Vero, amore?”, disse rivolta a papà.

Saltai sulla sedia.

Mi alzai per rinfrescarmi il viso in bagno.

Papà mi raggiunse.

“Diglielo o parlo io, adesso!”

Il suo volto tirato. Anche lui aveva dormito male.

Tornammo a sederci e il pranzo continuò come al solito.

“Troppo silenzio oggi” disse la mamma ridendo.

“Sono tutti stanchi, tranne noi, mamma!”, intervenne a sproposito quell’antipatico di mio fratello.

“Quando saprai…!”, pensai ridacchiando.

“La domenica è fatta per riposare e noi ci stiamo riposando. Vero, papà? Prima che…”

“Riprendiamo la frenesia degli impegni settimanali”, si affrettò a completare la frase tossendo e arrossendo alquanto.

“Che sta succedendo tra voi due?”, domandò mamma sempre molto attenta. Non le sfuggiva mai nulla. Sapeva cogliere al volo anche i prolungati silenzi.

“Niente, niente, cara!”

Ipocrita! Mi partì l’embolo e vomitai d’un colpo tutta l’amarezza che stavo masticando.

“Invece un problema c’è, mamma. Un grosso problema!”

Sapevo che poi saremmo morti tutti, ma non ero fatta per le finzioni. Mi stavano strette come nodi scorsoi.

“Un problema???”

La vidi vacillare, si sedette e ascoltò parola per parola immobile.

Non guardò papà ma me.

Non si può raccontare il dolore che vidi spuntare nei suoi grandi occhi color nocciola.

Non una lacrima. Le labbra tremavano, la voce, le mani.

Ci somigliavamo molto io e lei.

Due donne forti e fragili.

Mio fratello aveva smesso di ingurgitare bocconcini di carne.

Mio padre si era alzato per riprendere fiato.

Lo avevo avvisato.

“Viola… sei sicura?”

Ebbe la forza di domandarmi.

“Sì, mamma!”

Poi tacque per giorni.

Eravamo come fantasmi.

La puzza di quello schifo, forse, era arrivata fino al cielo. Ero abbastanza disperata da non vedere il sole.

Mi mancava l’odore delle risate.

Dopo aver confessato tutto, ero morta più profondamente.

Marta aveva continuato a cercarmi e io non avevo risposto a nessuna chiamata.

Ignoravo perché papà avesse ceduto. Mamma era bellissima e non meritava un simile disprezzo.

Quelle combinazioni chimiche che l’amore innesca sono davvero micce pericolose. E, quando s’innescano, fanno terra bruciata intorno senza scampo.

Cercavo di difendere l’idea d’amore che mi ero costruita a fatica e che stava crollando rovinosamente.

Non c’era nascondiglio che potesse proteggermi.

Matteo, mio fratello, era diventato taciturno, usciva poco, non parlava di ragazze, fumava più spesso e vegliava sulla mamma.

Avevo cominciato ad adorarlo.

“E’ cresciuto!”, mi ripetei.

Trascorse molto tempo prima che vedessi la mamma meno rigida in volto.

In questi giorni l’avevo sentita singhiozzare spesso. Avevo provato ad abbracciarla ma mi guardava in maniera strana.

“Ce l’ha con me!”, mi ero persuasa e avevo smesso di farlo.

Una mattina, una di quelle mattine semiautunnali che ti ingoiano l’anima, a colazione il silenzio fu interrotto da una stringata comunicazione:

“Ci separiamo!”

La voce impersonale di mamma e il suo sguardo lontanissimo mi colpirono come una freccia avvelenata.

Capii che nulla si poteva più ricucire. Né il tempo dei ricordi né quello dell’immaginazione e nemmeno quello della speranza.

“A fine settimana vado via di casa”, continuò papà.

Io e Matteo ci abbracciammo e morimmo insieme.

Morimmo di panico e di solitudine. Tesi le orecchie al silenzio: nessun rombo sotterraneo.

Squillò il cellulare e risposi: “Viola???”

Era Marta. “Facciamo due passi?”

“Sì!”

Uscii di casa morendo ancora.

Nulla sarebbe stato più come prima!

(Angela Aniello)

La separazione dei genitori porta inevitabilmente nei figli una serie di cambiamenti sia nella quotidianità che nel loro modo di relazionarsi in famiglia e con il mondo; di seguito dei brevi consigli per aiutare i genitori che stanno vivendo questa dolorosa e difficile fase della vita, con l’augurio che anche il dolore e le ferite possano trasformarsi e generare nuovo amore:

  • E’ preferibile che i genitori comunichino insieme l’intenzione di separarsi.
  • Rassicurare i propri figli sul fatto che la separazione è una decisione in cui essi non c’entrano e non hanno alcuna colpa.
  • E’ fondamentale aiutare i figli ad esprimere i propri pensieri e sentimenti rispetto alla separazione.
  • Essere chiari sull’irreversibilità della decisione per evitare il tentativo da parte dei figli di riconciliare i genitori.
  • E’ importante non parlare male ai figli dell’altro genitore.
  • Evitare di cercare la complicità dei figli contro l’altro genitore.
  • Fare in modo che i figli vedano regolarmente il genitore che non vive con loro e che non cambino drasticamente le proprie abitudini.
  • Aspettare un po’ di tempo prima di presentare eventuali altri partner

Dott.ssa Santa Maggio

 

Prestami le parole, mamma!

Un racconto per riflettere su come un bambino
vede il mondo che lo circonda

Quante volte vi sarete chiesti: cosa pensa un neonato che si affaccia al mondo? Come lo interpreta? Quali considerazioni fa delle interazioni sociali? Cosa pensa mentre compie dei gesti?

Si rimane incantati a guardare un piccolo esserino che sta nel mondo con l’aria a volte smarrita, altre così intelligente e consapevole di sé…

Molti studi mostrano come i neonati siano capaci di interagire subito: imitano la mimica facciale, fissano lo sguardo, cercano il contatto visivo della madre e immagazzinano tutti gli stimoli provenienti dall’ambiente; ogni esperienza lascia un segno indelebile che costituisce una traccia per organizzare le esperienze successive.

I bambini nascono con capacità innate di comunicazione e ricercano fin da subito il proprio interlocutore. Conoscono l’odore della sua pelle, il calore, il battito cardiaco e sono in grado di riconoscere la madre fra mille. Con lei instaurano un dialogo speciale, che si arricchisce con il passare dei giorni e permette di apprendere quelle competenze che potranno utilizzare più ampiamente nelle interazioni sociali.

Questo simpatico e delicato racconto ci proietta nella mente di un bambino che interpreta, commenta ed esprime i suoi pensieri sugli adulti che interagiscono con lui.

Si percepisce teneramente il suo desiderio di riuscire a comunicare con gli altri così come fa con la mamma, senza parole, ma con un’infinità di emozioni che comunicano molto di più delle parole!

Le parole possono anche essere prestate, ma non uguagliano mai le emozioni che devono trasmettere, la cui intensità e unicità ben si trattiene in un pensato silenzio.

Il bimbo e la sua mamma si rifugiano ognuno nello sguardo dell’altra e in quell’incontro si annullano tutti gli altri livelli di comunicazione o vi trovano un senso più profondo.

Lasciamoci trasportare dalla narrazione, in fondo ognuno di noi da bambino chissà che avrà pensato nell’approcciarsi al mondo!

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Prestami le parole, mamma!

Da quando sono nato, ovunque si posi il mio sguardo capisco che c’è bellezza, tranne nei nasi.

Non li sopporto! Lunghi, piccoli, aquilini, larghi, per me nascondono bugie.

Mi piace solo il mio, gli altri puzzano.

All’inizio tutto mi sembrava strano, irregolare. Pensavo che ogni cosa avesse spigoli.

Mi domandavo quanti lati e quanti spigoli ci fossero.

Tutto era forma. Solo che io non avevo parole.

Questo il problema.

Mi ero persuaso che gli spigoli fossero i gomiti delle cose per spostarsi; io avevo le gambe e gli oggetti gli spigoli, ottimi per difendersi.

Calciavo alla perfezione se qualcuno non mi andava a genio, gli spigoli, invece, erano subdoli e colpivano nel fianco arrecando un dolore indefinibile.

Allora, incrociare lo sguardo di mamma mi rasserenava. Solo in quel momento riuscivo a non pensare.

Era come arrivare in un porto sicuro e desiderare di fermarsi lì per sempre.

Poi ho capito che non funziona esattamente così.

Non ci si può fermare!

Quelli intorno a me avevano al polso uno strano cerchio (nuova forma per me che ero abituato agli spigoli) con lancette e ogni tanto ci buttavano un’occhiatina.

C’era, anzi mi correggo, c’è un tempo per ogni cosa. Anche per me. Un tempo pieno di bisogni.

Fame, sonno, voglia di coccole, noia, pannolino sporco. E stress! Tanto stress!

Nessuno pensa che un bambino piccolo possa annoiarsi e stressarsi. Invece, se sapessero!

Riparliamo dei nasi.

Quelli, che ti vengono a trovare per conoscerti e magicamente provano a infilare il naso tra le pieghe del collo, sono i più insopportabili.

Dico, vengono per conoscere me o sentire il mio profumo?

Lo stress mi porta a starnutire in continuazione.

Mi guardano ovunque tranne negli occhi. Afferrano le manine, controllano i piedini, contano quanti capelli ho in testa, ma, quando arrivano agli occhi, cercano solo di indovinarne il colore.

Blu… saranno blu!” esclamano sentenziando.

Buffoni! All’inizio sono quasi tutti blu, vorrei urlare.

Mamma, prestami le parole, per favore! Passami tutte quelle che non ti servono ma aiutami. Io non li sop-por-to!

Chissà perché non fanno quasi mai caso alle espressioni!

Avrà pure un significato il mio continuo sbadigliare.

In silenzio sto dicendo: “Non mi piacete!

Uh… Ha sonno!”, dicono convinti. “Il bambino deve dormire. Cresce nel sonno!

Là m’imbestialisco. Divento rosso paonazzo e mi metto ad urlare. Me ne invento una più del diavolo per farli andar via.

Sanno tutto loro. Invece non hanno capito un fico secco di me.

Non voglio dormire, non ho fame, non ho fatto la cacca, voglio soltanto la mia mamma! Le sue braccia. Le sue carezze. Le sue storie.

Non quelle quattro chiacchiere che mi son dovuto sorbire, pure inutili.

Avessi imparato qualcosa!

O meglio, una cosa l’ho imparata.

Che devo difendermi dalle persone. Da alcune persone.

Per fortuna non sono tutte uguali.

Mi piace questo mondo. Mi piacciono i volti. I nasi, no. Dicono le bugie.

Un giorno ho ascoltato la favola di Pinocchio e del suo naso sempre più lungo ad ogni bugia. E mi è venuto il terrore delle bugie.

Me lo controllo ogni giorno il naso. E’ la prima cosa che faccio al mattino. Controllare che sia sempre uguale.

Quando vedo persone con i nasi lunghi, penso: “Ma quante bugie avete raccontato!”. Allora non mi piacciono a pelle. E quelli con i nasi lunghi sono i primi a voler spiare il collo. Odiosi come le bugie!

Di contro, adoro quelli che vengono a trovarmi e hanno un tono di voce dolce. Quelli che non devono trovarti ad ogni costo difetti. Ti guardano e ti sorridono.

Basta che uno mi sorrida e mi emoziono.

Ancora non so bene cosa sia la felicità. Di sicuro è anche questo. Il piacere di un sorriso.

Allora non mi arrabbio, non ho bisogno di parole, ci capiamo perché sento il battito del cuore accelerato e una sensazione di benessere mi attraversa.

Quella serenità non mi induce a cercare per forza mamma (comunque la controllo) e mi rilassa.

Se, poi, mi raccontano storie, rischio di addormentarmi.

C’era una volta un principe che sapeva sognare…” e gli occhi si chiudono.

Le parole ti conducono ovunque e ti fanno viaggiare.

Gasparre! Gasparre!

Mi sentii chiamare.

All’inizio ero in guerra col mio nome.

Perché poi devo chiamarmi?” , tentavo di domandare a mamma. Mi piaceva anche il tono della sua voce ma il nome, no!

Pesante! Troppo per un bimbo piccolo come me!

Gasparre! Gasparre!

Neanche la voce del papà mi convinceva!

A volte, facevo finta di non sentire. Mica dovevo essere per forza io!

Un giorno mi hanno regalato una targhetta col significato del nome e mamma, che forse aveva intuito il mio malanimo, l’ha letto:

Gasparre significa stimabile maestro. Era uno dei Re Magi e portò l’oro a Gesù!

Però!”, pensai perplesso. “Mica male!

Non so chi siano i Magi, chi sia Gesù. Però ho capito che deve essere gente importante Una storia bella come altre che ho ascoltato. Poi, mi piace la parola MAESTRO.

Ha un suono forte, deciso. Un po’ mi rispecchia perché ho un bel caratterino.

Non dico che me ne sono fatto una ragione, ma quasi.

Comunque, quando posso continuare a dormire, anche se mi chiamano, non mi muovo. Apro un occhiolino, l’altro e se non vedo nessuno, riprendo a sognare.

La storia dei bambini che crescono nel sonno ancora non l’ho capita, ma dicono che chi dorme di più della nanna normale, si svegli più grande!

E spero di crescere! Voglio crescere e imparare a parlare.

Quando la mamma mi sveglia con le carezze, non c’è occhiolino che tenga.

Prestami le parole, mamma, per descrivere la tua bellezza! Ho i concetti, ma mi mancano gli aggettivi!

Mi piaci assai!

Prestami parole chiare, immediate, parole che ti aiutino a capire quanto ti amo. Ti a-mo! Mi ascolti?

Sì, è più di un semplice voler bene!

Posso voler bene al cerchio tondo e sorridente del sole, allo spicchio di luna che fa luce dalla finestra e che, quando è piena, somiglia a un bellissimo palloncino giallo.

Posso voler bene ai miei giochini, all’orsetto che dorme al mio fianco nel lettino, ma con te, con te è davvero diverso.

Finchè ero nella tua pancia e ti immaginavo, riuscivo ancora a trovarle le parole, biascicate, trasandate .

Ora non mi bastano.

E quando dico che mi piaci assai racchiudo un mondo, tutto il mio mondo.

Un mondo fatto di tenerezze, di ninnenanne, di favole raccontate, di passeggiate.

Un mondo in cui non mi sento quasi mai solo.

E’ triste quando un bambino si sente solo. Può capitare.

Se non mi guardi. Se sei impegnata in altro e mi sembra che ti dimentichi di me.

Ma un tuo abbraccio è il più bel pezzettino di te che mi doni e sparisce tutto.

Le ombre, le lacrime, le paure.

Prestami le parole, mamma, contro la paura.

Una volta mi sono convinto che i coccodrilli di notte venissero a cercarmi per mangiarmi le dita dei piedi e piangevo, piangevo.

Era solo un incubo. Ti ho svegliata, mi hai cullato semiaddormentata e al suono del tuo respiro mi sono calmato.

Mi piace, mamma, sentirmi rassicurato da te.

Mi piace anche papà, stare con lui pelle a pelle, ridere perché la sua barba mi fa il solletico ma tu, tu sei speciale.

Un giorno troverò le parole e te le affiderò.

Non so se saranno giuste, adeguate. Non so se mi accontenterò. Per ora so soltanto che

ti stupirò, vedrai, ti stupirò! E tu sarai felice! Ah, dimenticavo!

Chiamami Gasparre, non mi arrabbierò!

(Angela Aniello)

 

Riproviamoci ancora

Un racconto per riflettere sulla comunicazione
e sulle dinamiche tra genitori e figli adolescenti

Il racconto che segue, intenso e ribelle, grazie ad un piccolo tuffo nella mente di un’adolescente, fa riflettere sulla comunicazione e sulle dinamiche genitori-figli adolescenti.

L’adolescenza è sicuramente il momento più critico della vita sia per i figli che per i genitori. Non ci si trova più davanti ad un bambino dipendente e spesso accomodante ed essere genitore diventa sempre più un compito di costante adattamento soprattutto in questa fase importantissima e nuova del ciclo vitale.

L’adolescente deve fare i conti con i profondi mutamenti degli aspetti fisici, con la rottura dell’equilibrio emotivo, con il rapido alternarsi di stati d’animo opposti e i problemi connessi, con il comparire delle pulsioni sessuali, con le prime esperienze sentimentali, con le scelte professionali, ideologiche, scolastiche, ma soprattutto con il desiderio di indipendenza e allo stesso tempo di un rapporto diverso con gli adulti.

In questa delicata fase della vita i ragazzi hanno bisogno di fiducia, di sapere che gli adulti di riferimento accettano la loro sperimentazione e in questo un genitore può riuscirci nella misura in cui immagina cosa il figlio pensa e come potrebbe reagire o comportarsi alle diverse situazioni che gli si presentano.

Tutto diventa più difficile da gestire quando è un solo genitore a dover far quadrare il tempo, le spese, il cuore, i bilanci vari.

Mille strade d’incontro possono dipanarsi quando, poi, c’è davvero il bisogno di incontrarsi, di rimescolare tutte le emozioni come carte della vita, di una quotidianità, che può anche farsi dura ma mai invivibile per chi vuole crederci.

Solo quando noi adulti riusciamo a meravigliarci, a guardare il mondo degli adolescenti con i loro occhi, ad ascoltarli e ad accoglierli senza farli sentire giudicati, possiamo aprire la comunicazione e creare quel rapporto vivo che offre uno spazio necessario per un sano sviluppo psicologico ed emotivo.

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Riproviamoci ancora

Francesca osservava da tempo il soffitto plumbeo e anonimo della sua cameretta. Angeli e demoni, caduti entrambi dallo stesso Paradiso semivuoto, svolazzavano minacciosamente sul suo capo confuso e ribelle. Troppo ribelle. Troppo incazzato.

Era uno di quei pomeriggi di primavera in cui stentava a studiare. Cominciava a essere stanca di ritrovarsi sempre sola in casa.

Sola con i suoi pensieri stentati, sola con le paure, le incertezze, gli incubi.
Sola con un vuoto dentro sempre più devastante.
Sua madre lavorava tutto il giorno e si vedevano pochissimo.
Da ore la pagina bianca dinanzi a lei restava immacolata, rifiutando di riempirsi di chiacchiere.

“Le chiacchiere abbelliscono il nulla ma non lo riempiono mai”, sbraitava uno dei demoni gaudenti.

“Taci, maledetto demonio! Non vedi quanto è triste?”, cercava di indorare la pillola l’angelo buono.

La fantasia cozzava con la malinconia e si accompagnava al silenzio.

Titolo del tema: “Dialoghi apertamente con i tuoi genitori?”

A quattordici anni era stufa di mentire.

Mio padre, buon’anima, è andato avanti (cioè morto) quattro anni fa. La mamma se ne sta per cavoli suoi… Non dialoghiamo perché non ha mai tempo per me”… avrebbe voluto scrivere.

Perché tanti spazi bianchi si frapponevano fra lei e sua madre rendendo pesante un silenzio già troppo inquietante.

Il sole, che penetrava dalla finestra alle sue spalle, riscaldava piacevolmente il petto rammaricato, ma il buio nel cuore smorzava ogni sorriso.

Testo: Io e mia madre siamo molto unite. Quando torna dal lavoro, si siede accanto a me sul divano rosso in cucina e mentre sgranocchiamo patatine alla cipolla, le nostre preferite, mi domanda come è andata la mia giornata. Ridiamo come pazze quando le racconto le avventure della mia classe, le prime cotte delle mie amiche e anche la mia per Luca, il più figo della scuola. È simpatico e poi mi fa ridere… Ho tanto bisogno di ridere. Sì… ho davvero tanto bisogno di ridere. Sono felice e quando mia madre è vicina mi sento protetta, mi sento amata…………………………………………………………………………………….

P.s…..Così sarebbe, se mia madre avesse tempo per me… Ma… avremo mai tempo?”

Aprì il diario, dalle pagine colorate sbucò all’improvviso la foto di Luca e uno strano rossore le imporporò le guance.

Sua madre non s’era neppure accorta che stava crescendo. Che non era più la bambina da quietare con cioccolatini e giocattoli. Che si stava innamorando e un rimescolio di emozioni le faceva vacillare le gambe.

Era sempre troppo impegnata con le cene dalle sue amiche, troppo presa da se stessa.
Desiderava davvero una figlia quattordici anni prima quando l’aveva concepita?

Il tema era stato concluso senza troppi entusiasmi. Parole inutili, che sapevano di fumo, di solitudine, di rabbia a lungo fagocitata e inespressa, di illusioni gonfie come inconsistenti bolle di sapone.

Chi lo avrebbe mai saputo?

A scuola gli amici la invidiavano:

“Beata te, che hai una mamma così giovane, così frizzante, così allegra. È super, vero? Sembrate sorelle!”
“Che strana la vita!”, pensò Francesca sbadigliando e stiracchiandosi per pigrizia.
Un rumore di chiavi infilate frettolosamente nella toppa, il cigolio della porta ed eccola puntualmente far capolino nella sua camera.

“Franciiii? Sei in casa? Vieni ad abbracciarmi! Ho avuto una pessima giornata!
È bello rientrare sapendo di trovarti, bambina mia!”
“Quante volte, mamma, devo ricordarti che non sono più una bambina?”

Il volto incollerito e la testa ricciuta e scomposta fecero sorridere Claudia.

“Hai cenato?”
“Non ho fame e poi ho tanti compiti da fare e poi non ho tempo da perdere”
“Non ha tempo da perdere, la signorina…” ribadì stizzita Claudia.

Sempre la stessa storia. Non riuscivano più a comunicare. Se n’era accorta da tempo, ma non sapeva che altro tentare per riavvicinarsi a lei. Non era mai stata una brava mamma, è vero, ma Franci era tutto il suo mondo. Forse l’aveva trascurata per il lavoro, ma non aveva alternativa. Quel maledetto lavoro in una fabbrica maleodorante le stava allontanando. Per appena 750 euro netti al mese.

Sospirò e rimase seduta a lungo in silenzio sul letto di sua figlia che, di proposito, non la guardava neppure. Ma sentiva il fiato pesante sul collo e soffriva.

Due mondi vicini eppur lontani che non si incontravano più.

“Che ci fai qui?”, borbottò quasi ringhiando Francesca. “Non hai impegni stasera?”
“No. Non esco. Resto qui con te.”
“Non preoccuparti, mamma, mi sono abituata a star sola. Ci si abitua a tutto prima o poi, non credi?”

Francesca sentiva la rabbia salire alla labbra, incontenibile, come se il silenzio all’improvviso avesse aperto la valvola di sfogo.

“Perché sei dura con me?”
“Perché non dovrei esserlo.. mammina cara?”
“Vuoi sapere cosa è accaduto oggi? La prof di italiano mi ha assegnato un tema da svolgere a casa e ho dovuto mentire… perché non parliamo mai… perché non mi chiedi nulla… Perché non mi conosci…mamma… Mi consideri ancora la tua bambina… Ma non sai ciò che provo… ciò che penso… Sono cresciuta presto… anche grazie alla tua assenza.”

Uno sguardo così cupo e ferito Claudia non l’aveva mai visto. Aveva dinanzi a sé un’estranea. Si vergognava e taceva. Giocherellava nervosamente con le dita e pensava.

“Vuoi leggere il tema? Fa’ pure e, se proprio ci tieni, soffermati soprattutto sull’ultimo rigo che, ovviamente, in bella copia non riporterò mai”

Le porse il foglio macchiato d’inchiostro, accartocciato più volte. Lo aprì tremando, lesse tutto d’un fiato sotto lo sguardo minaccioso di sua figlia e con tanta pena nel cuore giunse al post scriptum. Un nodo in gola le seccò la saliva. I suoi errori scorrevano visibilmente in quelle righe e di colpo li vedeva tutti insieme.

Si fissarono a lungo e si abbracciarono.

Franci era ancora scettica ma aveva bisogno di quell’abbraccio. Come un’ancora nel maremoto che le tranciava il fiato. Come ossigeno puro tra i fumi di sagome poco nitide.

“ … Avremo mai tempo, mamma?”

“Sì… Credo di sì… Se lo vorrai…Se lo vorremo… Perdonami, se puoi” accennò a stento Claudia fra i singhiozzi.

“ Ok… Riproviamoci ancora! Per favore, non deludermi, perché non so se riuscirei a perdonarti ancora. Anche se sei mia madre, se ti voglio più bene di chiunque altro, se riconosco che non hai tutte le colpe, no, non penso che ingoierei un’altra illusione.

Una madre, una buona madre, non nasce tale, ma di certo può diventarlo se lo desidera.”

Aveva detto tutto e la libertà che le riossigenava i polmoni era più dolce di ogni sperata speranza.

(Angela Aniello)

 

Troppo bello essere qui

Un racconto per riflettere sulla nascita

Questo breve ma coinvolgente racconto ha l’obiettivo di far sorridere e riflettere in maniera leggera su un momento delicato e unico: la nascita, il venire al mondo.

A parlare è proprio un “bambino prenatale”, una simpatica e sensibile creatura che con parole semplici riesce a far vivere le emozioni di un evento che porta in sé mistero, magia e meraviglia
…ma il mistero e le sorprese iniziano già dal momento in cui la coppia scopre di aspettare un figlio, si crea quel legame affettivo che viene comunicato attraverso la pancia.

E’ ormai risaputo che il feto è sensibile ai rumori corporei della madre e ai suoni del mondo esterno. Per questo si consiglia ai neo genitori di interagire con il pancione. La voce i suoni e le canzoncine cantate dai genitori verranno riconosciuti precocemente dal neonato e saranno utili a favorire l’acquisizione del linguaggio verbale e ad accresce lo stato di sicurezza e protezione.

Ora non vi resta che lasciarvi trasportare dal tenero racconto non dimenticando che anche noi siamo stati “bambini prenatali”

a cura della Dott.ssa Santa Maggio

Troppo bello essere qui

Stare sulla mia nuvola mi piaceva tanto: tracciavo le linee essenziali della mia fantasia e immaginavo come potesse cambiare la mia vita. Non avevo poi una gran voglia di lasciare il cielo, lì mi sentivo esplodere in libertà!

Poi, all’improvviso, senza nessun preavviso, mi sono sentito “rubato”, come un piccolo seme che poi sarebbe germogliato.

Sono travolto, mi scuotono di qua e di là.

Che mi sta succedendo? Dov’è l’azzurro del cielo? Dov’è la mia nuvola? Vedo il buio, mi trovo in uno spazio che non so definire. Ho smesso di essere un angelo, forse? Provo ad aprire gli occhi, mi tiro un pizzicotto e… ancora buio!

Ci sono tanti elementi strani che mi circondano. Sembrano tubi che s’incrociano come a formare un giaciglio… Mmmm! Accidenti! Sono già nella pancia della mia mamma?

Che caldo! Che bel caldo!
Devono essere queste le carezze!
Papà o mamma mi stanno accarezzando e non lo sanno.

Si amano e per loro io mi trovo in questa cella momentanea. Mi manca un sacco l’infinito del cielo! Poi non potrò volare più! Né angelo, né ancora bambino. Un puntino, ecco cosa sono, simile a tanti puntini che poi sarà abbracciato in modo speciale.

Lo spero!
Nove mesi non sono certo una passeggiata, ma io e mamma avremo tanto tempo per conoscerci.

Già le voglio bene, anche se non so esattamente cosa voglia dire.
Chissà! Sarò bello? Mi piacerà correre? Saprò aspettare?
Come corro con la mia fantasia!
Mia madre è una tipa in gamba e attiva.
Mi sembra di essere su un’altalena: ora su, ora giù, , ora a destra, ora a sinistra!
Non sa nulla di me, ma quando lo saprà, chissà come sarà felice!
Immagino già le sue mani, il suo sguardo, i suoi baci… Sì, i suoi meravigliosi baci. Devono essere per forza così!

Che succede?

Driin! Un campanello… Mamma trema e io pure.

All’improvviso ho freddo e poi la sento piangere. Io non ho mai pianto sulla nuvola, ma credo stia piangendo perché anche il battito del cuore è più veloce. Tum, tum, tum, tum!

Ho capito! Ha fatto l’ecografia e adesso è sicura che ci sono.
Beh, forse comincia davvero la mia cronaca. Non ho fatto in tempo a sentire il mio cognome…
Mica è importante ora!
Questi tubi cominciano ad annoiarmi.
Sto crescendo.

Ancora il suono di un campanello e un sobbalzo.

Dev’essere papà. Troppo silenzio ora e poi io qua mi scoccio: aspetto le fatidiche parole ma, forse, i baci sono più necessari adesso.
Che combinano quei due? Ehi, volete parlare di me?
Il silenzio dell’amore dice tutto. La penseranno così. Non è facile per me comprenderli!

I giorni passano velocemente. A volte, mi mancano le stelle, la luna.

Di notte do il meglio di me: con le manine e i piedini, mentre la mamma si racconta, mi muovo e vado alla scoperta del territorio. Gioco col cordone che ci unisce, faccio capriole, mi diverto a soffiare e ascolto il suo respiro. Mi piace sentirla respirare!

Quante lune si saranno avvicendate ancora?
Divento sempre più grosso e faccio fatica a muovermi.

Ancora freddo! Un leggero tremito mi ha fatto svegliare. Una voce estranea, forse quella del ginecologo, sta dicendo alla mamma tutte le mie misure. Mica mi piace essere spiato così! Mi vergogno e poi devo fare il bravo per non far sbagliare il dottore.

“E’ un maschietto!”

E io che mi vedevo femmina! O forse è la mamma che mi ha condizionato, “Serena, Serena!”. Mi chiamava così. Santa pazienza! Dovrò abituarmi a un altro nome!

Comunque, tutto procede e mi sento perfetto.
Nuoto nell’acqua che mi circonda come se mi sentissi davvero a casa. E ho cominciato a sognare di più.

Penso sempre alla nuvola ma ora so che vuol dire amare.
Io amo la mia mamma e lei ama me.
Se ho il singhiozzo, basta una sua carezza e mi calmo.
Se mi muovo troppo, canta canzoncine solo per me.
Ha una voce divina e m’incanta. Il suo grembo è un’oasi di dolcezza.
Ogni tanto, mentre sonnecchio, avverto il calore di una mano diversa, più grande. Quella del mio papà.
Come ci divertiremo io e lui. I due maschi di casa coccolati dalla nostra principessa.

Non ho mai saputo contare il tempo, ma posso dire che ora fugge?

Ogni tanto la pancia della mia mamma si indurisce e lei emette dei gridolini. Forse le faccio male, così provo a scalciare di meno, ma non sempre funziona.

“Ci siamo quasi, signora Brighelli. E’ un maschietto sano e bellissimo!”

Quanto adoro il ginecologo! Mi descrive che sembro una star! E mi fa sentire bello, anzi, che dico! Bellissimo! Mi chiedo se gli amici, che ho lasciato lassù, potranno provare un giorno tutte queste emozioni. Sono fortunato! Il mio Dio mi ha amato prima dei miei genitori. Doveva aver letto il mio desiderio di ogni giorno: essere un bambino come tutti gli altri. Non smetterò mai di ringraziarlo!

Mamma s’affatica molto. Papà la sostiene, la consola e, se ha dei doloretti, le dice di controllare il respiro.

Mi sento un pachiderma goffo e imbranato. Sono già in posizione!

So tutto: devo superare le strettoie del bacino interno, poco più larghe del mio corpo, devo piegare il mio capo e ruotare su me stesso per adattarmi allo stretto passaggio a mia disposizione per nascere.

Istruzioni recepite! Al momento si vedrà!
Ah! Ah! Ah!
Mamma urla.
Oddio! Nascerò! Valigia pronta, corsa in ospedale. Papà guida come un pazzo, mamma urla e io mi stresso.
Le contrazioni aumentano, la dilatazione è quasi completa, mamma spinge, io partecipo.
Qualcuno sta afferrando la mia testa, sto ruotando, le spalle sono allineate.
Quando devono partorire le donne urlano come ossesse. Basta!!!
Sono quasi del tutto fuori. E mi sento strano!
Ultima spinta signora!

E io vivo, pieno di muchi che mi stanno aspirando, ma vivo.

Com’è diverso! La luce m’infastidisce.
C’è un tipo che mi stringe fra le braccia, strampalato direi! Papà, forse.
Ma io aspetto mamma. Eccola. E’ bellissima e non voglio staccarmi da lei e dal suo abbraccio.

Troppo bello essere qui. Grazie, Dio!

(Angela Aniello)